Il 28 aprile le autorità keniane hanno vietato la proiezione a Nairobi di un documentario della Bbc sul ruolo dell’esercito nell’uccisione dei manifestanti che l’anno scorso protestavano contro il presidente William Ruto. Non è stato solo un atto di censura. Le autorità hanno voluto proteggere un patto decennale, un accordo silenzioso tra l’esercito, lo stato, i mezzi d’informazione e l’opinione pubblica, in base al quale l’esercito non entra apertamente nelle questioni politiche e in cambio vuole che nessuno ficchi il naso in quello che fanno i soldati. Ora che questo patto è minacciato, la reazione è stata rabbiosa. I parlamentari allineati con il governo hanno accusato la Bbc di alimentare l’instabilità, chiedendo che all’emittente sia imposto il divieto di operare in Kenya. Sui social media sono state lanciate campagne con l’hashtag #BbcforChaos, in cui il giornalismo viene paragonato al sabotaggio. In realtà quello che le autorità vogliono difendere non è la sicurezza nazionale, ma il silenzio che ha permesso all’esercito di restare al di sopra della legge.
Questo silenzio è stato coltivato fin dall’indipendenza del paese. Due golpe falliti (nel 1971 e nel 1982) e i crimini dei regimi militari in tutto il continente hanno creato una paura profonda dell’ingerenza dei soldati nella politica. Per evitare future ribellioni, i governi che si sono alternati alla guida del paese hanno fatto il possibile per soddisfare ogni pretesa dell’esercito, a patto che si tenesse lontano dai riflettori. Per raggiungere lo scopo anche l’opinione pubblica ha chiuso un occhio, a cominciare dai mezzi d’informazione. Il concetto è semplice: se nessuno parla, non c’è nessun colpo di stato. Ma nel frattempo, dietro le quinte, le forze armate keniane sono diventate sempre più forti, in particolare negli anni novanta e duemila.
Oggi i giornalisti keniani pubblicano raramente articoli critici nei confronti dell’esercito, che invece ha diritto di veto sul modo in cui si parla dei militari al pubblico
Nel 2011 l’invasione della Somalia le ha fatte uscire dall’ombra. Finiti al centro dell’attenzione, i militari si sono presentati come guerrieri patriottici impegnati contro il terrorismo e determinati a instillare la disciplina nella pubblica amministrazione, notoriamente corrotta. Nel decennio successivo l’amministrazione dell’allora presidente Uhuru Kenyatta ha assegnato una serie di incarichi di governo ai rappresentanti dell’esercito. Mentre il potere e la visibilità dei militari crescevano, i meccanismi di controllo civili non si sono rafforzati allo stesso modo.
L’invasione della Somalia, lanciata in pompa magna, si è rapidamente impantanata. Nel 2016 almeno 140 soldati keniani sono stati uccisi in un attentato del gruppo jihadista somalo Al Shabaab contro la base militare di El Adde, in Somalia. È stato il peggior attacco mai subìto dall’esercito keniano.
In Kenya le cose non andavano meglio. L’invasione, infatti, ha innescato un’ondata di attentati terroristici. La risposta caotica e criminale delle forze armate all’attentato del 2013 contro il centro commerciale Westgate, nel centro di Nairobi (68 morti), ha evidenziato una situazione fuori controllo: i soldati, infatti, avevano saccheggiato i negozi del centro commerciale mentre fingevano di combattere i terroristi di Al Shabaab. Meno di due anni dopo, l’esercito è tornato a occupare le prime pagine dei giornali, ancora una volta a causa di una reazione fallimentare a un attacco contro il Garissa university college, che aveva causato 147 morti.
Nel frattempo l’esercito ha continuato a trincerarsi dietro il silenzio. Non ci sono state inchieste pubbliche e nessuno ha obbligato i militari ad assumersi le proprie responsabilità. Allo stesso modo, in pochi hanno protestato quando i soldati hanno assunto il controllo di una parte di Lenana road, una delle principali arterie di Nairobi, per espandere il loro quartier generale, o quando i vertici sono stati coinvolti in un tentativo d’influenzare le elezioni presidenziali del 2022.
Oggi i giornalisti pubblicano raramente articoli critici nei confronti dell’esercito, mentre i militari hanno diritto di veto sul modo in cui si parla dei militari al pubblico. Il documentario della Bbc quindi è pericoloso non perché rappresenta una minaccia per la stabilità, ma perché sfida l’idea secondo cui la verità sul conto dei militari debba essere sempre taciuta nel nome del bene comune. Il problema è che una democrazia degna di questo nome non può essere costruita sulla paura. Il Kenya non può prosperare proteggendo una delle sue istituzioni più potenti dal giudizio del pubblico e della legge. Se i giornalisti vengono aggrediti quando provano a raccontare la verità e se i mezzi d’informazione si censurano per mantenere il favore dei generali, vuol dire che la linea di separazione tra il potere civile e l’impunità militare è diventata troppo sottile.
Il Kenya deve rompere il patto. L’esercito dev’essere costretto ad assumersi le sue responsabilità, non solo davanti agli ufficiali ma anche davanti al popolo. E il giornalismo dev’essere libero di svelare la verità, anche quando infastidisce gli uomini armati. ◆ as
Questo articolo è uscito su Al Jazeera.
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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati