Fame di mia madre è un’opera che intreccia la memoria familiare con la storia coloniale dell’Angola. Ha l’andamento della cronaca, accentuato dalle frasi brevi, cadenzate, dai dialoghi singhiozzanti inframmezzati dai lunghi monologhi interiori della protagonista. Vitória è mulata e, insieme alle sue zie e i nonni, parte dall’Angola in guerra per trovare riparo in Portogallo. Si lasciano con un monito, come suggerisce il patriarca assimilato António: “Ciò che non viene con voi, qui rimane. Chi non è con voi, qui muore”. Chi sparisce nelle viscere della terra è Rosa, la figlia ribelle, che si unisce ai guerriglieri per l’indipendenza. Ora Vitória, adulta, torna sulle tracce della madre perduta. Emerge in questa ricerca anche la ricostruzione delle sorti storiche dell’Angola, ma quel che Monteiro riesce a fare meglio è tratteggiare un rapporto genitrice-figlia liberato dalle buone intenzioni e dalla redenzione. In questo mi ha ricordato molto la corrispondenza tra la protagonista di Olga muore sognando e la mamma portoricana che l’ha abbandonata per la rivoluzione. Anche Monteiro intreccia qui il privato e il pubblico per raccontare vicende di un vissuto collettivo: “Il fatto è che la memoria familiare non è soltanto di chi l’ha vissuta”. Non si chiede alla storia di renderci giustizia – forse non è più possibile – quanto di non dimenticare quel che abbiamo perso. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati




