Negli anni ottanta il maturando Giuliano incontra un ragazzo dalla pelle gialla: appare già eterno e indistruttibile. Un extraterrestre. In questa prima parte si fatica a entrare nella storia, ma si è ripagati da una scrittura minuziosa, attenta ai gesti e ai corpi, come quando descrive Gina, la madre della narratrice Piera, come “una di quelli che venivano su storti perché non riuscivano a lasciare il paese”. Oppure con la frase che sintetizza Enrica, una donna che “sembrava passare attraverso le cose senza spostarle”. Questo lavoro di cesello si comprende dopo, nella seconda parte del romanzo, quando in quell’impalcatura di relazioni umane e di contatti sociali emergono le crepe della sua stessa costruzione, fino al dramma del terremoto in cui crolla la palestra comunale, seppellendo otto bambini, compreso il fratello di Piera. Italo Orlando – l’extraterrestre, la divinità pagana, l’amuleto, il tuttofare o forse il ragazzo – viene visto uscirne illeso per poi svanire. Il crollo scopre le fratture: il cemento scadente, la fabbrica di laterizi, famiglie crepate e divise, l’infanzia stroncata. Carola Susani percorre in questo romanzo dalla lingua duttile il confine labile tra memoria, cronaca e mito, tra fatalità e responsabilità, tra l’individuo e la collettività tutta. Alla fine sembra voltarsi verso il lettore per chiedere qual è il dio a cui dobbiamo rispondere noi. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati