Medhanye, 31 anni, etiope del gruppo etnico tigrino, stava guardando una partita di calcio con gli amici in un bar della capitale etiope Addis Abeba quando è arrivata la polizia. Dopo aver controllato i documenti d’identità, sui quali è indicata anche l’etnia, i poliziotti hanno preso undici tigrini e li hanno portati in un posto dov’erano rinchiuse altre centinaia di persone del loro gruppo etnico. All’alba del giorno dopo li hanno fatti salire su tre autobus e condotti in un campo di detenzione segreto nella regione dell’Afar. “Non ci hanno detto se avevamo commesso reati”, afferma Medhanye, che nei successivi 93 giorni è stato detenuto e torturato in quel campo.
Sparizioni, profilazioni su base etnica e arresti di massa di tigrini sono diventati più frequenti quest’anno, soprattutto dopo le ultime conquiste sul campo dei ribelli guidati dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf). Lo affermano alcuni gruppi in difesa dei diritti umani e fonti indipendenti. Dall’inizio di novembre, con i ribelli che si avvicinano alla capitale, è cominciato un nuovo ciclo di detenzioni, in cui la polizia ha arrestato centinaia di persone per strada o nel corso di perquisizioni nelle case. Dopo la proclamazione dello stato d’emergenza nazionale, lo scorso 2 novembre, le forze dell’ordine possono fermare chiunque sia sospettato di “collaborazione con gruppi terroristici” e trattenerlo per tutta la durata dello stato d’emergenza, anche senza mandato. “L’ampiezza dei provvedimenti dello stato d’emergenza apre la strada a nuove violazioni dei diritti umani, tra cui le detenzioni arbitrarie”, ha scritto Amnesty international il 5 novembre. L’organizzazione denuncia anche l’aumento dei messaggi sui social network che insultano i tigrini e istigano alla violenza. Alcuni funzionari del governo hanno definito i leader del Tigrai “cancro”, “erbacce da estirpare”, “ratti”.
I detenuti liberati raccontano di aver sentito sparare ad Awash Sebat
Secondo alcune stime, nell’ultimo anno migliaia di tigrini sono stati imprigionati arbitrariamente. Il partito tigrino Salsay Weyane sostiene che tra le ventimila e le trentamila persone sono state rinchiuse in centri di detenzione fuori delle principali zone dei combattimenti. Attraverso le immagini satellitari e le informazioni ottenute dai detenuti, è stato possibile individuare la posizione di tre di queste strutture. Due – Awash Arba e Awash Sebat – si trovano nella regione dell’Afar. La terza, il magazzino Gelan, è alla periferia di Addis Abeba.
Medhanye afferma di aver subìto spesso torture ad Awash Sebat. “Il giorno più duro è stato il 6 agosto”, racconta. “Ci hanno costretti a stare accovacciati a piedi nudi su un marciapiede caldissimo. Mentre eravamo in questa posizione ci frustavano sulla schiena. Tra noi c’erano dei ragazzini di dodici anni che urlavano di dolore. Quel giorno mi hanno torturato finché non ho perso i sensi”. Medhanye è stato liberato a ottobre, dopo che amici e parenti sono riusciti a mettere insieme i centomila birr (circa 1.800 euro) richiesti come tangente dalle autorità del campo. Chi non ha potuto pagare è ancora là.
Controllo documenti
Ad Addis Abeba i quartieri di Hayahulet, Teklehaimanot e Kaliti sono abitati in larga misura da tigrini. Alcuni testimoni riferiscono che i poliziotti prendono di mira gli abitanti di queste aree. Tsion, che vive e lavora come impiegata nella capitale, racconta che la polizia ha arrestato quattro mesi fa la sua amica Genet, una casalinga tigrina di 27 anni: “Da mesi non abbiamo più sue notizie. Non sappiamo neanche dove l’hanno portata”.
La sera del 1 luglio i fratelli Kiflay e Haftom, di 26 e 22 anni, tornavano a casa a piedi dal lavoro ad Addis Abeba. Sono stati arrestati da poliziotti che gli avevano chiesto la carta d’identità per controllare la loro etnia. I due giovani tigrini si erano trasferiti nella capitale sei mesi prima per lavorare come falegnami. Sono stati trattenuti per un giorno nel commissariato di quartiere. Ma il giorno dopo sono spariti. Merhawi, il cugino di 31 anni, li cerca da allora: “Non so neanche se siano ancora vivi”.
Grazie a un telefonino fatto entrare di nascosto nel campo di Awash Arba, il Globe and Mail ha potuto parlare con un tigrino di 23 anni che vi è rinchiuso. Al momento dell’arresto, cinque mesi fa, lavorava come operaio in un cantiere della capitale. Insieme a lui, dice, sono rinchiusi circa novecento tigrini. “Ci picchiano tutti i giorni”, racconta. “Ci molestano e minacciano di ucciderci. Non ho parole per descrivere la sofferenza. Siamo tutte persone comuni, non veniamo da ambienti militari né dalla politica, e non abbiamo fatto attivismo sui social network. Non siamo mai stati sentiti in un tribunale”.
I detenuti liberati dopo il pagamento di tangenti hanno raccontato di aver sentito sparare ad Awash Sebat e di temere che ci siano state delle esecuzioni. Ashenafi ha trascorso tre settimane nel campo finché non ha versato una tangente di 81mila birr (1.480 euro). Racconta di aver visto cinque giovani detenuti condotti una notte d’inizio agosto in una stanza da cui poi è arrivato il rumore di spari. “Non so di preciso cosa gli sia successo. Ma il giorno dopo la stanza era vuota”.
“Abiy Ahmed può ancora ribaltare la situazione a suo vantaggio?”, si chiede Morris Kiruga su The Africa Report. Il primo ministro etiope non è mai stato in una posizione tanto precaria da quando è arrivato al potere nel 2018. La guerra in corso da un anno “ha accelerato nelle ultime settimane. Alla fine di ottobre il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf) ha rivendicato la conquista di due città strategiche. Il 3 novembre l’Esercito di liberazione oromo (Ola), che ad agosto si è alleato al Tplf, ha dichiarato che l’arrivo dei suoi combattenti nella capitale è ‘questione di settimane’”. Secondo il Guardian, altri otto gruppi armati etiopi si sono uniti al Tplf il 5 novembre, lo stesso giorno in cui il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha rotto il lungo silenzio sull’Etiopia chiedendo un cessate il fuoco ed esprimendo “profonda preoccupazione per l’escalation dei combattimenti”. Migliaia di abitanti della capitale, che Abiy ha esortato a prendere le armi in una “guerra esistenziale”, sono scesi in piazza il 7 novembre per manifestare sostegno al governo. La propaganda ufficiale ha alzato i toni e Facebook ha rimosso un post dell’account del primo ministro perché istigava alla violenza contro i tigrini. Il 9 novembre l’Onu ha invitato Addis Abeba a rilasciare 16 suoi dipendenti, che secondo alcuni resoconti sono stati arrestati perché tigrini.
Abiy non ha molta scelta, scrive The Africa Report: “Potrebbe rassegnarsi a una guerra usurante, ma l’esercito federale ha subìto molte sconfitte e il morale è basso. Gli attacchi dell’aviazione governativa su Mekelle non hanno impedito ai ribelli di avanzare nelle regioni vicine”. “Abiy è all’angolo”, concorda il Financial Times. “Qualunque esito diverso da una vittoria totale decreterà la fine della sua carriera politica. Il Tplf è a un soffio dalla riconquista del potere, ma ha davanti a sé una ‘traversata del deserto’. L’unico modo possibile per uscirne è il dialogo. Purtroppo sembra anche l’esito meno probabile”. ◆
In un rapporto di agosto Human rights watch scrive che dopo la conquista di Mekelle, a giugno, le autorità etiopi avevano arrestato arbitrariamente e fatto sparire un numero crescente di tigrini ad Addis Abeba, tra cui dei giornalisti. Lo schema era lo stesso descritto dai detenuti. “Avvocati e familiari hanno scoperto solo settimane dopo e spesso solo per vie informali, che alcuni detenuti si trovavano nell’Afar, a più di 200 chilometri da Addis Abeba”.
Il Globe and Mail ha contattato Billene Seyoum, portavoce del primo ministro Abiy Ahmed, per un commento sulle accuse contenute in questo articolo, ma non ha ricevuto risposta. ◆ gim
Lucy Kassa è una giornalista etiope che vive ad Addis Abeba. Collabora con molti mezzi d’informazione internazionali.
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Questo articolo è uscito sul numero 1435 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati