Nel 2013 Francesco ha cominciato il pontificato nel pieno di una crisi. Il suo predecessore, Benedetto XVI, il primo papa a dimettersi da secoli, era legato al conservatorismo teologico e rituale. Le sue dimissioni sono state interpretate come l’ammissione di una sconfitta di fronte al proliferare degli scandali, che avevano mandato in frantumi l’autorità morale del clero cattolico, anche tra molti credenti. Agli occhi del mondo il cattolicesimo era ormai caratterizzato da abusi, pedofilia e insabbiamenti. Sullo sfondo c’erano altri due problemi: un costante calo della partecipazione dei fedeli e l’eredità del concilio Vaticano II, che ha ridefinito ogni aspetto della pratica cattolica, rendendo più snella la messa e permettendo di celebrarla in lingue diverse dal latino. Giovanni XXIII, il papa che avviò il concilio nel 1962, lo definì un “aggiornamento”, un tentativo di “spalancare le finestre della chiesa per far entrare l’aria fresca dello Spirito”.
Gran parte della politica ecclesiastica negli ultimi decenni è stata mossa dai tentativi di richiudere quelle finestre. Le opinioni sul concilio Vaticano II sono un buon indicatore di altre posizioni: liberali e progressisti tendono a darne un giudizio favorevole, e vorrebbero che le riforme si spingessero ancora oltre nel trasformare l’approccio della chiesa alle questioni sociali; i conservatori tendono a vederlo come una triste perdita di autostima, che avrebbe svilito una ricca tradizione, portando la chiesa alla deriva. Atteggiamenti misti, che combinano visioni sociali progressiste con l’attaccamento a rituali tradizionali (o viceversa), sono molto rari, più che in altre chiese.
Le sue posizioni sulla guerra, sul libero mercato e sul clima rientravano tutte nella dottrina sociale della chiesa
Francesco in un primo momento aveva dato speranza ai progressisti, che si erano sentiti asfissiati dai suoi predecessori. Il nome era stato un segnale positivo: il nome di un santo, Francesco d’Assisi, che si fece promotore del rinnovamento spirituale attraverso la povertà, che cercò Cristo tra gli infermi, e i cui seguaci hanno creato problemi alla chiesa istituzionale. Papa Francesco parlava di una chiesa per i poveri, attiva nel mondo, con sacerdoti che fossero “pastori con l’odore delle pecore”. La sua prima esortazione apostolica si augurava “una chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade”. Il primo viaggio fuori Roma era stato a Lampedusa per celebrare una messa tra i migranti su un altare ricavato da una barca naufragata, in ricordo delle centinaia di persone annegate nel Mediterraneo. Lì il papa aveva rimproverato “la globalizzazione dell’indifferenza” e la “cultura del benessere”, che “ci rende insensibili alle grida degli altri”. Il fatto che non somigliasse al suo predecessore era sicuramente d’aiuto. Benedetto si era guadagnato la reputazione di un tutore del conservatorismo. Ma era un uomo timido, cerebrale ed enigmatico, poco adatto al papato moderno. Tuttavia dipingere in modo caricaturale Benedetto e Francesco come, rispettivamente, l’intellettuale e il populista sarebbe sbagliato: i modi semplici di papa Francesco – una volta accusò di coprofilia il giornalismo che va alla ricerca di scandali – nascondevano un intelletto potente. Amava le opere di Wagner dirette da Wilhelm Furtwängler; una sua lettera sul valore della letteratura citava Proust, Cocteau, Borges e Celan. Le sue riflessioni sulla pandemia citavano Hölderlin, con dei versi che caratterizzano anche il suo modo d’intendere il ruolo di papa: “Dov’è il pericolo, cresce / anche ciò che salva”.
Entrambi i fronti della guerra culturale hanno sfruttato le caricature che descrivono Francesco come il papa woke. La realtà delle cose è stata meno netta. Il papa diffidava della spinta progressista a rendere la chiesa una tormentata succursale romana del movimento per i diritti umani. Le sue posizioni sulla guerra, sullo sfruttamento causato dal libero mercato e sul cambiamento climatico rientravano tutte nell’orientamento dominante della dottrina sociale della chiesa, anche se articolate con un’immediatezza e una chiarezza uniche. Dalle sue interviste spesso si aveva l’impressione che secondo lui gli inciampi della chiesa sulla sessualità non fossero altro che questo: sintomi di una tendenza clericale, opposta a quella di Cristo, ad allontanarsi dalla vera umanità.
Probabilmente le parole più famose del suo pontificato sono state pronunciate in risposta alla domanda di un giornalista sui gay: “Chi sono io per giudicare?”. Come la maggior parte dei gesti progressisti di Francesco su sesso e questioni di genere – per esempio il ricevere persone cattoliche trans nelle udienze generali – anche quella era un’iniziativa simbolica e retorica più che dottrinale. Una dichiarazione del 2023 per consentire la benedizione di coppie omosessuali ha scatenato un’ondata mondiale di collera dei conservatori; qualche settimana dopo il Vaticano ha risposto con un attacco, ben poco convincente, alla “teoria gender”. Francesco non ha mai tentato di modificare il catechismo, secondo cui l’omosessualità è “intrinsecamente disordinata” e i rapporti omosessuali sono una “grave depravazione”.
Un cinico potrebbe insinuare che Francesco sia stato semplicemente un buon comunicatore
Lo schema generale è stato quello di un progresso retorico indebolito dall’inerzia dottrinale: apprezzamento per il ruolo delle donne nella chiesa e riaffermazione del sacerdozio maschile; un’idea di una chiesa decentrata promossa da un papato combattivo e dominante. Reali cambiamenti nel denunciare gli abusi, e nel fare i conti con i catastrofici fallimenti della chiesa, sono stati viziati da tentennamenti sui singoli casi.
A seconda di dove ci si posiziona, cambia l’interpretazione. Un cinico potrebbe insinuare che Francesco sia stato semplicemente un buon comunicatore, attento nel capire gli umori dei progressisti occidentali, ma senza sostanza. Uno storico della chiesa potrebbe vedere in lui un gesuita flessibile e scaltro nelle dichiarazioni pubbliche. Altri potrebbero riconoscere che, nella vita dei fedeli, i gesti simbolici fatti dal papa sono stati significativi, forse ancor più dei suoi pronunciamenti dottrinali. È per questo che hanno assunto tanta rilevanza l’aver lavato i piedi ai migranti, ai detenuti, alle donne e ai non cristiani, il rifiuto delle sontuose residenze papali e le telefonate quotidiane ai cattolici di Gaza.
La sua formazione da gesuita è stata poco esplorata. È stato il primo papa moderno ad aver fatto voto di povertà, oltre ai voti di obbedienza e castità. È qui che si trovano le radici della sua avversione per il clericalismo. Il fatto che gli oppositori ultraconservatori fossero degli amanti dei merletti e dell’oro è sembrato sottolineare questo punto. Il pontefice era affezionato al Vangelo di Matteo, e deve aver spesso pensato al disprezzo di Cristo per quei pomposi dottori della legge che amavano gli onori ma che non facevano mai nulla per alleggerire il fardello degli altri.
L’enfasi di Francesco sulla misericordia spiega le sue scelte papali più chiaramente dello schema progressista/conservatore. È per questo motivo che voleva una chiesa delle periferie, e per tutti.
Christopher Butler, abate britannico che partecipò al Vaticano II, descrisse quel concilio come un rimedio per una chiesa che stava precipitando in una “monumentale irrilevanza”. Quello che nel 2013 era stato accolto come un pontificato di riforma, determinato ad affrontare nuovamente quel rischio, è sembrato semplicemente aver perso energia, sfiancato da quella monumentalità. Francesco lascia una chiesa travagliata e divisa, che rischia una guerra tra fazioni. I conservatori, compresi i cattolici trumpiani negli Stati Uniti, vorrebbero al suo posto un anti-Francesco. Difficilmente succederà, anche perché la maggior parte degli elettori è stata nominata dallo stesso Francesco. Eppure la curia è meno prevedibile di quanto lascino pensare i cliché del film Conclave. Dopotutto sono stati dei cardinali scelti da papi conservatori a eleggere Francesco.
Quando ero giovane, avevo sempre l’impressione che il papa stesse per morire. La lunga sofferenza pubblica di Giovanni Paolo II, malato di Parkinson, lo aveva reso un simbolo della dottrina cattolica sulla sacralità della vita. All’epoca la ritenevo crudele. Ma poi ho capito in parte quella forza simbolica guardando Francesco che, pur sofferente, si è ostinato a visitare i detenuti, a salutare con un filo di voce, a essere presente per il messaggio di Pasqua, a denunciare la follia del riarmo e della guerra, sfruttando fino all’ultimo ogni occasione per parlare a un mondo che continua a costruire prigioni, muri e idoli oligarchici. “Ci raccontano, i costruttori di Babele, che non si può sbagliare e chi cade è perduto”, ha scritto Francesco nelle sue ultime meditazioni del venerdì santo. “È il cantiere dell’inferno”. ◆ fdl
Questo articolo è uscito sulla London Review of Books.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati