La mia disavventura con la polizia risale all’epoca del liceo. Ero in Germania e tentai di rubare dei vinili. Fui portato in questura, e mi colpì il silenzio glaciale degli agenti tedeschi. Si limitavano all’essenziale, precipitando nel vuoto ogni mio tentativo un po’ alla Sordi di convincerli che “stavo a scherzà”. Delle divise italiane invece ho sempre rilevato una certa generosità verbale. Sia quando fanno i gradassi e gonfiano con le parole la loro autorità sia, più spesso, nel manifestare comprensione e diplomazia. Questa attitudine alla dialettica emerge in Stop border control Fiumicino (DMax), docu-reality sull’attività doganale contro il narcotraffico. Nella camera di sicurezza si avvicendano giovani maschi beccati a trasportare droga. C’è chi nasconde la cocaina nelle spalline del cappotto, nelle confezioni di salviette, nella suola delle scarpe o nel fondo del trolley. Non sono professionisti, ma disperati o ingenui che operano per pochi euro. Gli agenti, un po’ americani e un po’ amatriciani, chiedono, ascoltano, commentano, portando gli indagati a parlare di lavoro precario, complicati legami familiari e autosussistenza creativa. Certo, ci sono le telecamere, ma la resa è così efficace da convincere dell’autenticità. Una fotografia sociale che va oltre la perquisizione. Non come l’agente Franz, in quel di Monaco, che per distrazione o per gusti musicali divergenti di me non volle sapere niente. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati