I n Europa è arrivata la stagione delle ondate di calore. Dalla fine di giugno all’inizio di luglio in tutto il continente le temperature hanno superato i 37,7 gradi centigradi, colpendo in particolare Spagna e Francia. Tra gli incendi e la siccità incombente, sono scattate le misure di emergenza. I reattori nucleari sono stati chiusi, agli operai sui cantieri è stato detto di restare a casa, le scuole hanno cancellato intere giornate di lezioni e la Tour Eiffel è stata chiusa ai visitatori. Questi provvedimenti, tuttavia, hanno solo limitato i danni. Secondo le prime stime, l’ondata di calore durata dieci giorni ha causato circa 2.300 morti.

Queste emergenze non finiranno. Stiamo correndo verso un livello devastante di riscaldamento globale e in Europa le temperature si stanno alzando più velocemente che altrove. È arrivato il momento di prendere atto della necessità di un’azione più decisa per affrontare alla radice le cause del caldo estremo e aumentare gli sforzi per ridurre le emissioni. I politici europei hanno avuto la possibilità di mettere in pratica quello che spesso affermano: cioè che l’Unione europea guida la transizione verde mondiale. Non l’hanno colta, limitandosi a raccomandarsi di stare al sicuro. I leader del continente, al contrario, si stanno tirando indietro dagli impegni presi negli anni passati.

È il momento di prendere atto della necessità di un’azione più decisa per affrontare le cause del caldo estremo

Di fronte alle sfide economiche e al caos geopolitico, un coro di destra sempre più baldanzoso sostiene che l’Unione europea sta già facendo troppo per il clima. È disastroso, ma i leader europei stanno cedendo a queste voci. Stanno ridimensionando la loro ambizione di rendere l’economia più verde, condannando i cittadini a un futuro in cui farà un caldo terribile.

È un cambiamento significativo rispetto a pochi anni fa. Quando nel 2019 è stata scelta come presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen aveva promesso di mettere al centro del suo programma il green deal – il piano che vuole contrastare la perdita di biodiversità e attenuare le conseguenze del cambiamento climatico. Il green deal prevedeva circa mille miliardi di euro d’investimenti pubblici e privati, finalizzati all’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050. Dopo la pandemia, questo è diventato l’obiettivo principale degli investimenti finanziati dal piano di ripresa europeo Next Generation. La transizione verde non doveva essere un sacrificio economico, affermavano i suoi promotori, ma un mezzo fondamentale per salvaguardare il futuro del continente. Tuttavia, la coalizione su cui poggiava l’accordo, composta dai tradizionali partiti di centrosinistra e centrodestra dell’Unione, non è più così stabile. Dopo le elezioni europee del 2024, è minacciata da una potenziale alleanza alternativa di destra composta da una schiera eterogenea di sostenitori del rigore fiscale, conservatori e nazionalisti di destra. Queste forze sono divise su alcune questioni e non hanno un accordo formale. Ma, votando insieme su alcune misure, hanno dimostrato di costituire una maggioranza in grado di bloccare l’approvazione delle leggi.

Le forze di destra hanno a lungo inveito contro il green deal. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán l’aveva liquidato come una “fantasia utopica”; il partito di estrema destra Vox, che si candida a far parte del prossimo governo spagnolo, chiede di abbandonarlo. A Roma, il partito Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni ha adottato una linea più sfumata, usando una retorica più semplice in cui si parla di protezione della natura e, al tempo stesso, si oppone ai piani di adattamento industriale. Secondo Meloni, un simile programma creerebbe un “deserto” in cui “non c’è nulla di verde”.

In realtà gli appelli ad abbandonare il piano, però, non hanno senso. Gli investimenti sono ormai troppi. Nonostante questo, gli sforzi combinati di ideologi di destra, lobbisti aziendali e governi disposti a tornare sui propri passi stanno ostacolando diverse misure decisive. A giugno l’Italia ha messo il veto su una legge su cui si era lavorato a lungo e che avrebbe obbligato le aziende a dimostrare la sostenibilità ambientale dei loro prodotti. I deputati hanno accusato la cristianodemocratica von der Leyen di essersi schierata con l’estrema destra.

La Commissione europea ha annunciato che alcuni dei fondi destinati da Bruxelles alla transizione verde dopo la pandemia potranno essere usati per la difesa

Anche accordi già in vigore sono al centro di controversie, come nel caso dell’impegno dell’Unione di eliminare gradualmente i motori a benzina e diesel dalle nuove automobili entro il 2035. La norma, non gradita a molte persone, è stata attaccata soprattutto dal settore automobilistico. In Germania le aziende stanno facendo pressione sul cancelliere Friedrich Merz affinché mantenga la promessa elettorale di bloccarla. Il ministro dell’interno francese Bruno Retailleau, fresco di nomina alla presidenza del Partito repubblicano, di destra, è d’accordo.

Nonostante tutto, l’Unione mantiene formalmente l’impegno ad azzerare le emissioni entro il 2050, in linea con l’accordo di Parigi firmato nel 2015. In effetti negli ultimi anni ha fatto più progressi in questa direzione rispetto ad altre grandi economie. Il problema è che i passi per raggiungere questo obiettivo si fanno sempre più precari. A giugno è venuto fuori che la Francia ha fatto pressioni per ritardare la definizione degli obiettivi climatici dell’Unione per il 2040. Pur mantenendo l’obiettivo generale di ridurre le emissioni del 90 per cento entro il 2040, il governo del presidente Emmanuel Macron si è assicurato delle scappatoie che, secondo i suoi critici, avrebbero di fatto svuotato di senso il piano.

Gli europei stanno chiaramente perdendo la volontà di dare il buon esempio. Una proposta di legge presentata all’inizio di luglio suggerisce la possibilità di acquistare da paesi non europei il 3 per cento delle sue riduzioni di emissioni da oggi al 2036. L’Europa si è a lungo vantata di essere una potenza in ambito normativo che, con il suo esempio, avrebbe motivato gli altri ad assumere un comportamento virtuoso. Ora le cose stanno cambiando. Così come Bruxelles si affida a paesi nordafricani autoritari per esternalizzare le funzioni di polizia di frontiera, adesso vuole pagare altri paesi perché riducano le emissioni al posto suo.

Per vari leader europei il ritorno in carica del presidente Donald Trump dovrebbe spingere l’Europa a essere più coraggiosa e indipendente sulla scena globale. Dopo che il presidente statunitense ha ritirato il suo paese dall’accordo di Parigi, von der Leyen ha ribadito che il patto sul clima “è tuttora la migliore speranza per l’umanità” e che l’Europa “manterrà la rotta”. Alcuni leader europei hanno perfino chiesto una maggiore collaborazione con la Cina sugli obiettivi climatici, anche se si è dimostrato difficile giungere a un accordo formale.

A quanto pare però l’inattività statunitense sta avendo un effetto diverso e sta portando gli europei a interrogarsi sul senso dei loro sforzi per ridurre le emissioni. Un sentimento accentuato dalla minaccia dei dazi statunitensi che, se arriveranno, potrebbero devastare le industrie europee. Le pressioni di Trump affinché i paesi europei della Nato aumentino la spesa militare al 5 per cento del loro prodotto interno lordo stanno inoltre modificando le priorità del continente. Anche le forze di estrema destra che disapprovano i il piano di ripresa Next Generation per la transizione verde potrebbero invece sostenerlo se servisse a comprare armi.

Il riarmo presenta problemi e dilemmi specifici. Ma, tenuto conto delle enormi emissioni prodotte dall’industria bellica, questo segnala anche che l’Unione sta dedicando meno attenzione al clima. Nelle scorse settimane la Commissione europea ha annunciato che alcuni dei fondi destinati da Bruxelles alla transizione verde dopo la pandemia e che non sono stati spesi potranno essere usati per la difesa. Secondo quanto riferito, la Polonia ha ricevuto il permesso di reindirizzare più di sei miliardi di euro su infrastrutture, sicurezza informatica e produzione di acciaio e armi.

Tutto questo è paradossale. Se l’invasione dell’Ucraina ha costretto l’Europa ad abbandonare il gas russo, accelerando la svolta verso le energie rinnovabili, oggi i tanti segnali d’incertezza rischiano di fare il contrario. I leader del continente, alle prese con minacce interne ed esterne, stanno rinunciando al loro programma ecologico. Agli europei non resta che prendersi il caldo. ◆ gim

Questo articolo è uscito sul New York Times.

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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 41. Compra questo numero | Abbonati