Doveva essere uno dei grandi sconfitti dopo gli attentati del 7 ottobre 2023. Gli attacchi di Hamas avevano mandato in frantumi i suoi sogni di stabilità regionale e il progetto di normalizzazione delle relazioni con Israele. Peggio ancora, lo scontro tra l’asse iraniano e il campo israelo-statunitense avrebbe potuto portare o al rafforzamento dello stato ebraico nel mondo arabo o a un suo indebolimento e a un conflitto regionale su vasta scala. In altre parole, tutto quello che voleva evitare. Ma la storia ha deciso diversamente. E il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, detto Mbs, oggi appare come uno dei grandi vincitori dopo il 7 ottobre. L’asse iraniano ormai è solo l’ombra di quello che era un tempo. Un risultato che non è costato nulla al regno saudita. La distensione decretata nell’aprile 2023 con la mediazione della Cina non è stata messa in discussione e ha contribuito a evitare un’escalation generalizzata.

Bin Salman ormai è il leader indiscusso del mondo arabo e una delle grandi figure del “nuovo mondo”. È in virtù di questo che Donald Trump gli ha concesso la sua prima visita all’estero, trattandolo non da pari ma neppure come un vassallo. Mbs può rallegrarsi. Difficilmente avrebbe potuto sperare di meglio dal suo alleato più importante.

Anche se l’Iran è in difficoltà, l’Arabia Saudita non può stabilizzare la regione senza un alleato potente. E non ci riuscirà se non viene risolta la questione palestinese

Trump ha firmato una tregua separata con gli huthi nello Yemen, ha privilegiato l’approccio diplomatico sulla questione iraniana, ha incontrato il presidente siriano ad interim Ahmed al Sharaa, ha rimosso le sanzioni contro Damasco per fare un piacere a lui (e al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan) e ha fatto capire che la normalizzazione con Israele, impossibile oggi, può attendere.

Mbs non è più il giovane piantagrane che accolse il miliardario statunitense otto anni fa. È maturato, ha capito i limiti dell’uso della forza e ha sviluppato un’ossatura politica. È un rivoluzionario, a prescindere da quello che si pensa della sua rivoluzione. Ha trasformato il regno e vuole fare la stessa cosa a livello regionale.

Il progetto di Mbs, rivolto soprattutto al proprio interno – Saudi first – dipende dal prezzo del petrolio. Il calo del greggio, favorito dalla politica del regno, solleva interrogativi sulla fattibilità del piano e sulla reale capacità di trasformare il suo modello economico per preparare l’era post-petrolifera, che prima o poi arriverà. C’è poi un interrogativo di ordine politico. Cos’ha da offrire un regno autoritario e nazionalista, ossessionato dalla sicurezza e dal futuro, a paesi lontani mille miglia dalla sua realtà? Cos’ha da dire sul pluralismo, la libertà e la giustizia sociale?

Tra il Golfo e il resto del Medio Oriente c’è un mondo. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’Arabia Saudita, al contrario degli Emirati Arabi Uniti, non cerca d’imporre il suo modello in tutta la regione. In Libano, in Siria, in Iraq, ma anche in Palestina, Riyadh sta sviluppando una politica prudente, rivolta a varie comunità e favorevole al mantenimento dello stato centrale. Non è un progetto di egemonia regionale, ma di una leadership che mostra la strada da seguire.

Resta l’ultimo punto, il più importante. L’era iraniana si è conclusa. Ma l’era saudita probabilmente non vedrà mai la luce. Il regno è riuscito a imporsi come capofila del Golfo, ma il resto del Medio Oriente è un terreno più ostico. Anche se l’Iran è in difficoltà, anche se l’Arabia Saudita ha migliorato la propria posizione in Libano e in Siria, Riyadh non può stabilizzare la regione senza un alleato potente. E non ci riuscirà se non viene risolta la questione palestinese.

L’Europa è troppo assente per avere un peso nei colloqui. Gli Stati Uniti di Trump sono troppo disinteressati e soprattutto troppo filoisraeliani per essere l’elemento di punta di un progetto di pace. E Israele, un tempo potenziale alleato contro l’Iran, è il peggior sabotatore del piano di Mbs. La politica israeliana minaccia non solo Gaza e la Cisgiordania, ma anche l’Egitto, la Giordania, il Libano e la Siria. Come si può promuovere la pace in un contesto simile?

Ma c’è ancora un altro protagonista di cui non abbiamo parlato. Il rivale storico, che tuttavia sembra essere il tassello mancante del progetto di Mbs. Un’alleanza tra l’Arabia Saudita e la Turchia, tra il principe Bin Salman e il sultano Erdoğan, sembra innaturale. I due paesi hanno avuto una crisi diplomatica alla fine del decennio scorso, dopo il blocco imposto dall’asse saudita-emiratino contro il Qatar (alleato di Ankara) e l’omicidio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Oggi, però, hanno interesse a una distensione.

I due leader si fidano poco l’uno dell’altro. Ma insieme, con i petrodollari dell’uno e la forza dell’altro, potrebbero costringere Israele a negoziare e potrebbero riuscire a stabilizzare la regione. Un’alleanza tra i due paesi potrebbe segnare perfino l’inizio di un’era turco-saudita in Medio Oriente. ◆ fdl

Questo articolo è uscito sul quotidiano L’Orient-Le Jour

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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati