Vi ricordate il gennaio 2021? Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden inaugura il suo mandato proclamando a gran voce: “L’America è tornata!”. Il segretario di stato, Antony Blinken, faceva notare che “piaccia o no, il mondo non si organizza da solo”. La rivendicazione della leadership statunitense si è estesa a tutti i settori, dal commercio alla difesa, dalla tecnologia al clima. Tenuto conto delle sue alte emissioni pro capite di gas serra, l’idea che gli Stati Uniti potessero guidare il mondo sulla via della decarbonizzazione era difficile da credere. Ma la nuova linea di Washington era stata ben accolta.
Oggi, a meno di quattro anni di distanza, al potere ci sono i repubblicani. Sulla difesa e il commercio ci sarà continuità tra Biden e Donald Trump. Sul clima, però, gli Stati Uniti si sono già tirati fuori. Per quanto riguarda l’ambiente, Washington ha una personalità scissa. Lungi dall’organizzare il mondo, sarà il mondo a doversi organizzare per rispondere all’impatto destabilizzante della democrazia statunitense, polarizzata e ottusa.
Dopo anni d’investimenti nel fracking, sotto la presidenza di Joe Biden gli Stati Uniti sono diventati i più grandi produttori di petrolio che il mondo abbia mai visto
Negli anni ottanta gli scienziati statunitensi si sono dati da fare come tutti gli altri per indicare nel riscaldamento globale la sfida del nostro tempo. Tuttavia, mentre l’amministrazione Clinton contribuiva a preparare il primo accordo mondiale sul clima, il senato approvò la risoluzione Byrd-Hagel per denunciare il trattato delle Nazioni Unite che consentiva alle economie in via di sviluppo di rinviare le iniziative più costose per limitare le emissioni. L’importante protocollo di Kyoto del 1997 non fu mai nemmeno discusso in senato. Nel 2015, quando i segni di quella esperienza erano ancora vivi, gli accordi di Parigi sul clima sono stati costruiti apposta per aggirare la Byrd-Hagel. Non richiedevano la ratifica del senato e si basavano su contributi stabiliti a livello di singoli paesi. Nonostante questo, dopo aver definito la crisi climatica una bufala cinese, nel 2017 Trump ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal trattato.
Nel 2018, dopo un buon risultato elettorale, i democratici si sono stretti attorno al cosiddetto green new deal. Ma la popolarità di Trump non ne è stata particolarmente scalfita. Se non fosse stato per come ha gestito la pandemia, sarebbe stato rieletto nel 2020. Dopo mesi di litigi, Biden alla fine è riuscito a far approvare uno storico pacchetto di sussidi per l’energia verde. Ha preferito però mascherarlo da legge per la riduzione dell’inflazione, farcita di misure protezionistiche dirette contro la Cina.
Gli Stati Uniti hanno dato un contributo fondamentale alle moderne energie rinnovabili. Negli anni settanta gli ex scienziati della Nasa concepirono l’energia solare. A livello statale, la California ha una quota di rinnovabili pari a quelle europee. Con il sostegno dell’amministrazione Obama, la Tesla ha reso di moda i veicoli elettrici. Ma un conto è appassionarsi alle nuove fonti di energia, un altro è fare sul serio sulla transizione.
Dopo anni d’investimenti nel fracking, con l’amministrazione Biden gli Stati Uniti sono diventati i più grandi produttori di petrolio che il mondo abbia mai visto. Trump prevede di aumentare la produzione di altri tre milioni di barili. La decarbonizzazione della fornitura di elettricità andrà avanti perché oggi l’energia solare e l’eolica sono più economiche. Tuttavia, nonostante gli uragani che devastano il paese, qualsiasi ambizione di raggiungere gli obiettivi sul clima fissati per gli Stati Uniti è fuori discussione.
La conclusione inevitabile degli ultimi trentacinque anni è che gli Stati Uniti non sono un partner affidabile nelle politiche sul clima. Durante la luna di miele di Biden si sperava che Washington e l’Europa potessero collaborare. Bruxelles ha creato un insieme impressionate di sussidi e tassazioni delle emissioni. La chiusura dell’ultima centrale a carbone nel Regno Unito a settembre è stata un evento storico. Anche in Europa, però, il costo della vita sta spostando la politica su posizioni contrarie a un’azione seria contro il clima. La crisi nel settore automobilistico europeo, provocata dal successo cinese nella costruzione di veicoli elettrici, svela l’ipocrisia di un continente che ha promesso un green deal ma è rimasto attaccato al diesel. Per molti versi Bruxelles e Washington non sono riuscite ad affrontare la sfida della decarbonizzazione indicata dagli scienziati anni fa.
Se dev’esserci un leader mondiale per il clima, oggi può esserlo solo la Cina, che è responsabile di più del 30 per cento delle emissioni globali di gas serra e controlla la filiera dell’energia verde. Tenuto conto delle tensioni con gli Stati Uniti, Pechino ha tutte le ragioni per ridurre le importazioni di petrolio. L’interrogativo cruciale è se il partito comunista cinese sarà in grado di mettere da parte i suoi interessi nei combustibili fossili. Se ci riuscirà, non solo risolverà la crisi climatica, ma potrà rivendicare una leadership che l’occidente difficilmente potrà contrastare. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1593 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati