Dalle ceneri del vecchio ordine internazionale, creato dagli Stati Uniti alla fine della seconda guerra mondiale, sta emergendo un mondo senza la minima considerazione per i princìpi e per le leggi. In questo nuovo mondo a comandare sono la forza e chi ne fa un uso senza limiti. Il 13 giugno il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sicuro della potenza del suo esercito, ha scelto di nuovo la strada della forza attaccando l’Iran. Ormai è chiaro che l’obiettivo di Israele non è solo fermare il programma nucleare di Teheran, ma provocare anche la caduta di un regime che considera indissociabile da questo progetto.

Qui non si tratta di difendere il potere iraniano, che si poggia sulla repressione del suo popolo e ha svolto a lungo un ruolo dannoso in Medio Oriente, creando uno stato nello stato in Libano, con Hezbollah, e contribuendo alla sopravvivenza del regime siriano durante la guerra civile, fino al crollo della dinastia Assad. Oggi che la legge del più forte sta diventando la regola è necessario ricordare l’importanza del diritto internazionale. Questo diritto calpestato da tutte le parti stabilisce che la guerra preventiva è illegale, come il cambio di regime imposto unilateralmente da una potenza esterna. Gli Stati Uniti sono stati i primi a calpestarlo nel 2003, invadendo l’Iraq con il pretesto della presenza di armi di distruzioni di massa, una tesi che si è poi rivelata una bugia di stato. Vladimir Putin ha fatto lo stesso, prima in
Georgia e poi in Ucraina. La storia recente ci insegna che i cambiamenti di regime imposti dall’esterno hanno sempre provocato il caos, dato che le aspettative delle potenze straniere di rado corrispondono a quelle delle popolazioni interessate e dato che la disintegrazione degli apparati di sicurezza dei regimi così sconfitti alimenta regolarmente le insurrezioni, perfino le guerre civili.

I casi dell’Iraq e della Libia lo dimostrano. In Siria, dove il cambiamento è stato imposto dai siriani e la transizione in corso ha smentito le previsioni più negative, sembra essere vero il contrario almeno finora.

Donald Trump potrebbe avere un ruolo fondamentale nella vicenda iraniana, anche alla luce del fatto che ha costruito la sua posizione nel Partito repubblicano sulla sua avversione per le avventure militari. Il problema è che oggi il presidente della prima potenza militare del mondo invece di prendere l’iniziativa si comporta come uno strumento del bellicismo di Netanyahu.

Il 20 gennaio, nel discorso di insediamento, Trump aveva assicurato che il suo successo sarebbe stato misurabile “dalle guerre a cui metteremo fine e, forse ancora più importante, da quelle in cui non ci faremo coinvolgere”. Invece, allineandosi a Netanyahu, il presidente statunitense rischia di essere uno degli artefici dell’ennesimo conflitto sanguinario degli Stati Uniti in Medio Oriente. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 21. Compra questo numero | Abbonati