“Una delle cose che ho imparato per strada è stata quella di fidarmi della vita e di non alterarla. E questa stessa sensazione continua nel resto del mio lavoro, nei paesaggi, nei ritratti o in qualsiasi altro interesse. Le cose vanno bene così come sono, non c’è motivo di modificarle”. Così si raccontava in un video del 1982 Joel Meyerowitz, nato nel 1938 e cresciuto nel Bronx, a New York, e considerato un punto fermo della fotografia a colori applicata alla cosiddetta street photography. Per capire che cosa s’intende per fotografia di strada può essere utile fare un passo indietro e pensare a cosa rappresentava l’attimo decisivo per Henri Cartier-Bresson o l’attenzione per il quotidiano e gli aspetti meno celebrati della società per Robert Frank.

Meyerowitz ha assorbito le lezioni di questi grandi maestri, le ha poi miscelate con i tagli e la carica vitale delle immagini di Garry Winogrand, suo amico e collega, e con l’ironia indolente di Lee Friedlander, creando qualcosa di suo, formalmente pulito ma vivace e accattivante. Dentro ci sono l’attesa, la meraviglia, l’esitazione di un pedone un attimo prima di attraversare la strada, la luce gentile dell’alba e quella morbida che chiude il giorno. La sensualità delle gambe di un’autista d’autobus all’aeroporto di Los Angeles e la sagoma buffa di un padrone che porta in braccio il suo barboncino lasciandosi sovrastare dal pelo.

Dopo aver studiato pittura, storia dell’arte e illustrazione applicata al campo medico all’università dell’Ohio, nei primi anni sessanta Meyerowitz lavora come art director in ambito pubblicitario. Nel 1962 incontra Robert Frank, che doveva realizzare delle fotografie per un opuscolo da lui progettato. Ed è osservando Frank che scopre la possibilità di scattare foto mentre sia il fotografo sia il soggetto sono in movimento, in un moto continuo che assomiglia al ritmo incessante della vita. Una folgorazione che lo porta a lasciare la pubblicità e a trasformare la naturale attitudine a osservare e a vivere la strada in una professione. Per dirla con parole sue, “tutti sono curiosi. Di base fotografo la mia curiosità. Non so che cosa mi incuriosisce finché non faccio una foto”.

Comincia con una fotocamera 35 mm che gli consente movimenti agili nella folla. Le strade di New York sono una fonte inesauribile di suggestioni: segue il flusso per isolare singole scene; usa con disinvoltura la pellicola a colori, considerata inappropriata a un certo tipo di documentazione. Sarà lui stesso a confessare: “Ero giovane e inesperto, e non mi rendevo conto che esisteva una questione fastidiosa riguardo al colore nel serio mondo della fotografia. A quei tempi, il colore era considerato troppo commerciale, troppo da dilettante o semplicemente troppo sgargiante”. Guardando le sue foto si ha l’impressione di poter entrare e uscire dalla cornice in maniera semplice, come se fossimo lì, come se potessimo partecipare alla storia.

Meyerowitz cresce e con lui la dimensione dei suoi strumenti: a metà degli anni settanta comincia a usare macchine di grande formato per riprendere le architetture, la relazione che hanno con la luce e con lo spazio. Realizza ritratti posati da cui affiora una grande intimità con le persone che sceglie. Il suo sguardo si fa più lento e sofisticato, indugia sui soggetti senza perdere la capacità di accogliere l’inaspettato.

Facendo coincidere il lavoro con la vita, il personale con l’universale, l’autore ha scattato immagini capaci di raccontare un’epoca. Così è per le foto fatte negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam o quelle del World trade center dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, unico fotografo autorizzato a documentare l’area per mesi. E ancora gli autoritratti realizzati durante il lockdown del 2020, nel tentativo di proporre una riflessione sul difficile periodo della pandemia.

Ora la retrospettiva Joel Meyerowitz. A sense of wonder. Fotografie 1962-2022, a cura di Denis Curti, celebra il suo lavoro a Brescia, al museo di Santa Giulia.
La mostra, che fa parte del Brescia photo festival, è accompagnata da un catalogo omonimo edito da Skira, con più di novanta immagini, e andrà avanti fino al 25 agosto.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it