Carrie Mae Weems è un’artista afroamericana che vive e lavora a Syracuse, New York. Nata a Portland, in Oregon, nel 1953, a diciassette anni entra a far parte del San Francisco dancers’ workshop di Anna Halprin, pioniera della cosiddetta danza postmoderna, e nel 1976 si trasferisce a New York per studiare fotografia. Completa i suoi studi a Berkeley, in California, specializzandosi in teorie e metodologie del folclore. Il suo percorso tra danza e arti visive, performance e documentazione sembra gettare le basi di quello che sarà il fulcro della sua ricerca, ovvero l’idea dell’arte come terreno di scambio e costruzione di senso.
Seguendo il suo interesse per le tradizioni culturali, l’artista esplora aspetti dell’identità afroamericana contemporanea ritraendo spesso individui in contesti familiari. Fa proprie le tecniche della ricerca etnografica, rendendo l’osservazione partecipante uno strumento imprescindibile per analizzare e comprendere quello che ha intorno. “Tra me e il mio lavoro c’è una separazione minima. Io opero sempre come una partecipante e un’osservatrice dei miei lavori. Sono allo stesso tempo dentro e fuori, ed essere fuori mi consente di vedere i problemi ma anche di affrontarli con una certa risolutezza. E mi permette anche di notare una continuità di visione che è andata avanti per un lungo periodo di tempo”. Così ha dichiarato in un incontro organizzato nella sala immersiva di Gallerie d’Italia, a Torino, in occasione dell’apertura di una grande retrospettiva a lei dedicata, curata da Sarah Meister, direttrice di Aperture.
Nel corso di più di quarant’anni Carrie Mae Weems ha dato vita a un corpo di opere molto ampio, affidandosi a strumenti diversi: fotografie, testi, audio, immagini digitali e installazioni video. Al centro del suo lavoro ci sono i temi dell’identità e dell’appartenenza, del razzismo, della disuguaglianza di genere e di classe. Weems ha riconosciuto da subito il potenziale della fotografia nel riformulare le credenze legate alle comunità nere e l’ha usata per smontare i pregiudizi negativi della società.
L’autrice si muove su più piani: con un approccio documentaristico registra immagini di vita vera, spesso quelle della sua famiglia d’origine, che vediamo in Family pictures and stories (1981-1982) e, con uno stile simile, sviluppa anche delle messe in scena, usando l’autoritratto per costruire situazioni ad hoc, come nella serie Kitchen table, del 1990. Qui crea narrazioni emotivamente complesse attraverso fotografie in bianco e nero molto semplici, con inquadrature frontali, in cui si cala di volta in volta nel ruolo di amante, amica, madre e donna solitaria, proponendo scene universali e allo stesso tempo specifiche delle vite che immagina per offrire un ritratto polivalente della donna nera moderna, sempre ripresa intorno a un tavolo.
Mettere a confronto questi due lavori è utile per cogliere un passaggio fondamentale nella sua poetica, che pian piano vira verso la rappresentazione artificiosa, con l’allestimento di situazioni su cui l’autrice vuole condurre il nostro sguardo, mantenendo saldo l’intento documentaristico. “A un certo punto ho capito che non ero interessata ad andare in giro a scattare foto alle persone in modo indiscriminato. Sentivo piuttosto l’esigenza di un metodo, di un approccio fondato sul rispetto per le persone, e che fosse inappropriato limitarsi a scattare la foto di qualcuno, appenderla a una parete e rivendicarla come propria”, racconta. “E così è diventato fondamentale trovare un modo per usare la fotografia come mezzo per incidere, per lasciare un segno. Ma anche capire come piegare quello strumento, per esempio usando il linguaggio documentaristico per sviluppare qualcosa come la serie Kitchen table in modo che sembri un insieme di immagini documentarie, anche se in realtà è tutto costruito. Questa è diventata la vera sfida, capire come si crea un’immagine oggi, come interagisci sia con il soggetto che con l’oggetto della fotografia. Questo mi ha portato a usare il mio corpo come luogo e come terreno per quel tipo di esplorazione, partendo dal documentario”.
Kitchen table è un’opera germinale perché da qui in poi l’alter ego di Carrie Mae Weems ritornerà in varie forme, come una specie di musa sempre riconoscibile, anche se ripresa di spalle; una presenza lontana e rassicurante, che guida lo spettatore attraverso i luoghi e le epoche. È il caso di Roaming, cominciata nel 2006, quando era borsista all’American academy di Roma, in cui il suo alter ego si muove attraverso i paesaggi e le città storiche d’Italia. Oppure di Preach, nata da una committenza di Gallerie d’Italia, che propone un affondo sulle tradizioni della chiesa nera e in cui, di nuovo, la vediamo comparire come un’ombra austera e imponente, uno spirito del tempo che non si volta a guardarci. È un omaggio ai luoghi di culto della comunità afroamericana contemporanea, che per Weems sono sempre stati spazi di aggregazione, luoghi sicuri in cui fare rete e organizzarsi in una società ancora profondamente razzista.
In mostra ci sono più di cento opere tra fotografie, installazioni audiovisive e spazi allestiti per l’occasione, come un piccolo teatro per Leave now!, che ricostruisce la storia del nonno Frank, costretto a lasciare l’Arkansas e a raggiungere Chicago a piedi dopo un’aggressione razzista. Carrie Mae Weems. The heart of the matter si inserisce nella programmazione del festival Exposed di Torino e andrà avanti fino al 7 settembre. La retrospettiva è accompagnata da un catalogo pubblicato da Allemandi e Aperture.
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