Dalla finestra illuminata di quello che un tempo era un monastero benedettino nel centro di Roma e oggi è una scuola sventola un lenzuolo bianco, uno striscione verticale con una scritta in rosso: “Newton occupato”.

L’hanno esposto gli studenti del liceo scientifico Isaac Newton, davanti a una delle basiliche più importanti della capitale, Santa Maria Maggiore. Il 13 ottobre circa duecento studenti della scuola hanno deciso di fermare le lezioni mentre in Egitto era in corso il vertice voluto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per imporre un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.

L’istituto romano è il quinto in città che, nonostante la tregua tra Israele e Hamas raggiunta la settimana scorsa, vuole continuare le occupazioni e le proteste cominciate alla fine di settembre per sostenere il popolo palestinese.

Vado a visitarlo il 15 ottobre. Robby, 18 anni, una studente dell’ultimo anno, apre il portone chiuso con un paletto e sorvegliato da un gruppo di ragazzi seduti su un banco dietro alla porta. Attraversiamo la palestra dell’istituto e le aule. Sulle vetrate sono appese delle kefiah rosse (un copricapo tradizionale palestinese) e sugli armadietti c’è scritto con dei pennarelli neri in inglese: “Free Palestine” (Palestina libera) oppure “Boycott Israel” (boicotta Israele). Robby mi spiega che ci sono almeno duecento studenti impegnati nell’occupazione da lunedì e che andranno avanti per dieci giorni.

Una parte di loro rimane anche a dormire e ogni giorno c’è un’attività diversa: “Sono venuti i palestinesi di Roma, i rappresentanti della Flotilla, poi gli attivisti di Radio onda rossa, un collettivo di street artist che ci ha insegnato a fare murales, degli avvocati che ci hanno parlato del decreto sicurezza”, racconta. Robby, che indossa una felpa con il nome del suo collettivo, mi guida dentro le aule e poi su per le scale fino al cortile interno della scuola, dove ci sono degli alberi e dei ragazzi seduti su sedie e panche sistemate a formare dei circoli. Su un lato un gruppo di ragazze gioca a pallavolo. Su una parete, c’è il murale che hanno appena dipinto con colori brillanti. C’è scritto in francese: “Nous accusons” (Noi accusiamo).

Una cosa mai vista

“Il 22 settembre è scesa in piazza tutta la scuola, eravamo in mille. Mi ricordo il primo anno di liceo è stato l’anno del movimento studentesco ‘la lupa’ e anche quella è stata un’esperienza molto forte, ma non è paragonabile a questa”, riflette la ragazza.

All’epoca protestavano contro il programma di alternanza scuola-lavoro e i tirocini nelle aziende, in seguito della morte di Lorenzo Parelli, uno studente di 18 anni della provincia di Udine che perse la vita in un incidente in un cantiere a gennaio del 2022, durante l’ultimo giorno di stage.

“Ma quello che è successo nelle ultime settimane per Gaza non l’avevamo mai visto, studenti e lavoratori insieme, fianco a fianco. Dobbiamo molto ai portuali di Genova che hanno detto di bloccare tutto, ma anche ai sindacati di base”, continua Robby.

In realtà, spiega, alle manifestazioni in sostegno della Palestina il collettivo del Newton ci andava da due anni, ma all’inizio partecipavano pochissime persone: “Abbiamo visto il movimento crescere, ogni giorno nasce un collettivo nuovo e ogni giorno arrivano nuove persone nel vecchio collettivo della scuola, che ora conta cinquanta iscritti mentre sei anni fa era composto da cinque persone”.

Intanto ci hanno raggiunto altre due persone del collettivo.

Un ragazzo alto e magro con le lentiggini e una kefiah nera avvolta intorno al collo, e una ragazza con due grandi orecchini a cerchio color argento e la maglia nera. Non possono dire i loro nomi perché sono minorenni, la ragazza è di origine araba. È arrivata in Italia da bambina con i genitori, e dopo che la madre ha ottenuto la cittadinanza italiana l’ha avuta automaticamente anche lei.

Un fronte popolare per Gaza
A Roma migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni e allo sciopero per la Striscia, tra loro anche ragazze e ragazzi di origine palestinese.

“A casa mia guardavamo Al Jazeera tutti i giorni, i telegiornali in lingua araba mostravano le immagini di Gaza e alle prime manifestazioni due anni fa scendevo in piazza con i miei genitori per la Palestina. Ma eravamo in pochi. La partecipazione di questi giorni mi ha rincuorato”, racconta la ragazza. “Mi ha fatto capire che la lotta paga e anche che tante persone erano d’accordo con noi”. Dice di volere continuare a fare politica, che le sembra importante occuparsi dei diritti umani. E dopo il liceo vorrebbe iscriversi a scienze politiche.

“In questo conflitto abbiamo visto calpestare il diritto internazionale. Ci siamo ribellati anche per questo”, aggiunge il ragazzo con la kefiah, che confessa di aver cominciato a fare politica qualche anno prima per amore della sua ragazza, ma di avere capito che “senza fare politica non si può stare”. I tre raccontano di avere il sostegno della famiglia, solo Robby dice che sua madre la giudica troppo estremista e che ogni tanto ci discute. “Ma più sui metodi che sulla sostanza”, aggiunge. Mentre il padre è d’accordo con lei.

I genitori sono spesso scesi in piazza con loro e non si sono opposti all’occupazione della scuola. Le ragazze sono sicure che la mobilitazione non si fermerà, anche se non sanno dire quanto sia organizzata. Anzi raccontano che sono dentro a un coordinamento delle scuole romane, ma manca ancora una rete a livello nazionale, nessuno sa quante siano le scuole superiori occupate in tutta Italia o quanti gli studenti coinvolti nelle proteste. Per il momento non ci sono leader.

Hanno organizzato una manifestazione sotto alla sede del ministero dell’istruzione a Roma il 18 ottobre, contro il ministro Giuseppe Valditara, accusato di volere imporre dei limiti alla libertà d’espressione degli insegnanti e degli studenti delle scuole medie, superiori e delle università sulla situazione nella Striscia di Gaza.

Napoli, 15 ottobre 2025. Un’assemblea studentesca nel liceo classico Gian Battista Vico. (Francesco Natale per Internazionale)

“C’è molta strumentalizzazione sui ragazzi figli di stranieri come me che partecipano alle manifestazioni, i cosiddetti maranza. È un modo per non affrontare i problemi veri, l’emarginazione delle persone che nascono in Italia da genitori stranieri, la loro condizione. Allora si preferisce dire che fanno casino alle manifestazioni. Ma per fortuna ci sono personalità come Ghali che stanno parlando chiaro su questa questione”, continua la ragazza di origine araba.

Robby invece si è avvicinata alla politica per via del suo orientamento sessuale: si definisce non binaria. “Il primo movente per la politica è stato frequentare la comunità lgbt+, imparare a difendere i diritti delle persone non binarie. È successo quando avevo tredici o quattordici anni, ma poi ho realizzato che cos’è l’ingiustizia. C’è un mondo che si basa su un sistema che non permette una vita giusta e uguale per tutti, per questo faccio politica”, conclude Robby, mentre mi saluta e raggiunge degli amici seduti in cortile. Il ragazzo con la kefiah invece mi riaccompagna all’androne e si assicura che sia uscita dal portone secondario.

Diritto di critica

Per Ernesto Ciciarello, 19 anni, dell’organizzazione Opposizione studentesca d’alternativa (Osa) di Roma, che ha duemila iscritti a livello nazionale, in Italia le manifestazioni per la Palestina sono state più partecipate che altrove anche perché il governo non ha espresso un sostegno chiaro ai palestinesi.

“Anzi ha cercato di reprimere le manifestazioni e il dissenso”, dice, e conferma che Osa ha lanciato la manifestazione del 18 ottobre a Roma per contestare il ddl 1627 contro l’antisemitismo – il cosiddetto disegno di legge Gasparri, definito dai sindacati una “criminalizzazione del diritto di critica” che minaccia la libertà di insegnamento – e le numerose circolari diramate dal ministero dell’istruzione per “limitare il dibattito nelle scuole sulla questione palestinese”.

“Io credo che dentro le scuole si debba parlare di quello che succede nel mondo e quindi di quello che succede in Palestina, noi scendiamo in piazza per questo da prima del 7 ottobre, la Palestina è una questione storica”, conclude Ciciarello, che vede in questi due fattori e nella novità dello sciopero convocato dai sindacati di base e dai portuali i motivi della grande partecipazione alle manifestazioni.

Anche a Napoli dieci istituti scolastici sono ancora occupati in solidarietà con la Palestina. Dall’inizio delle mobilitazioni le scuole coinvolte sono state quindici. “Noi stiamo andando avanti dal 6 ottobre”, racconta Anita Zannetti, 18 anni, del liceo Gian Battista Vico, un istituto di circa 1.200 studenti, di cui trecento impegnati nell’occupazione. “Ho cominciato due anni fa a fare politica, con un’occupazione sempre per la Palestina, ma nel frattempo le manifestazioni sono diventate molto grandi e ci siamo sentiti ancora più motivati”, spiega Zannetti. “Continueremo a manifestare, se continuano gli attacchi al popolo palestinese, se non finisce l’occupazione della Striscia di Gaza. Non ci fermeremo e non ci faremo svilire davanti a una pace ingiusta”. Anche a Napoli c’è stata una manifestazione il 18 ottobre, con lo slogan: “Gente d’o sud per la Palestina”.

“È sbalorditivo vedere che le persone si sono risvegliate. Io sono scesa in piazza per indignazione e per rabbia, perché la condizione dei palestinesi è quella degli oppressi”, continua la ragazza. “Dopo l’occupazione, perfino i professori sono venuti da noi e ci hanno chiesto di organizzare insieme le prossime iniziative. È un traguardo mai raggiunto prima”. Ora vorrebbe costituire nella sua scuola un polo permanente di mobilitazione per la Palestina, un’iniziativa che vada avanti anche quando l’occupazione sarà finita.

A Napoli i collettivi studenteschi sono coordinati da Kaos, una rete che ha sede in un centro sociale, il Mezzocannone occupato. “Per ora non c’è un coordinamento nazionale”, conferma Zannetti.

Napoli, 16 ottobre 2025. Studenti del liceo artistico Santissimi Apostoli, occupato dal 13 ottobre. (Francesco Natale per Internazionale)

“Non crediamo che ci possa essere una pace senza l’autodeterminazione del popolo palestinese. D’altronde nella Striscia di Gaza le persone continuano a morire, abbiamo assistito al fallimento del diritto internazionale”, sostiene Marzia De Magistris, 19 anni, componente del coordinamento napoletano Kaos, che mette in rete una quindicina di collettivi studenteschi. “Il rischio in questo momento è che l’attenzione su quello che sta succedendo nella Striscia di Gaza scenda, ma credo che la maggior parte della popolazione italiana non smetterà di vigilare”.

Il video fatto con l’intelligenza artificiale che mostrava la ricostruzione della Striscia di Gaza secondo Donald Trump, mentre il territorio era completamente coperto di macerie, l’ha molto colpita. Pensa che al sud la causa palestinese sia particolarmente sentita perché “sappiamo cosa vuol dire essere colonizzati”. E sul successo delle manifestazioni è categorica: “Per tutti noi la Palestina è stato un punto di non ritorno, ci ha cambiato la vita, ha acceso un faro su un sistema che si fonda sulla disuguaglianza, sulla segregazione, sul colonialismo. C’è un popolo massacrato, che ha sollevato il velo delle contraddizioni e delle ipocrisie del nostro sistema di vita. Se non ci fossimo mobilitati, sarebbe stata la fine della nostra umanità”.

Dalle tende all’organizzazione

Donatella Della Porta, docente di scienze politiche all’università Normale Sant’Anna di Pisa e direttrice del centro studi dei movimenti sociali (Cosmos), spiega che le proteste per Gaza in Italia hanno avuto delle caratteristiche molto particolari rispetto ad altre proteste dello stesso tipo in giro per il mondo: “Sono cominciate come altrove dopo il 7 ottobre 2023, ma sono state più decentrate. Non sono avvenute solo nelle grandi città, ma si sono radicate con delle forme specifiche in ogni territorio”.

Soprattutto all’inizio, spiega, sono state organizzate dalla diaspora palestinese in Italia, dai giovani palestinesi, ma anche dalle persone di origine araba, le seconde generazioni, i migranti provenienti dai paesi arabi: “Con con il passare del tempo c’è stata una mobilitazione sempre più ampia, arrivata a coinvolgere anche settori della società che di solito non sono politicizzati e il mondo cattolico, che in Italia è ancora molto forte”.

La protesta è stata avviata dalle università con gli accampamenti della primavera del 2024 e nelle scuole superiori, che hanno usato il metodo tradizionale dell’occupazione. Poi si sono allargate a tutti gli ambiti lavorativi, per esempio agli ospedali, dove ci sono state delle specifiche forme di protesta come lo sciopero della fame del personale sanitario in solidarietà al personale medico attaccato nella Striscia di Gaza; oppure agli ordini professionali come l’ordine dei giornalisti, fino al mondo sportivo e artistico con delle prese di posizione di allenatori di calcio, attori e registi.

“Dalle nostre ricerche emerge che quello che ha caratterizzato il contesto italiano è che gli studenti sono stati affiancati da molti altri settori, in particolare dal mondo del lavoro. Solo in Spagna e in Italia ci sono stati degli scioperi per Gaza. Prima i sindacati di base, poi i sindacati più grandi. In Italia ci sono stati tre scioperi in due settimane per la Palestina. Non era mai successo”, dice Della Porta.

C’è stato un elemento di “shock morale, di indignazione”, che ha fatto superare tutte le tradizionali divisioni ideologiche anche in ambito scolastico o sindacale: “In parte perché le immagini violente dei bombardamenti sono arrivate in diretta, in parte a causa dell’immobilismo e della complicità dei governi occidentali che per due anni non sono intervenuti”. Per la studiosa, non è possibile prevedere come si modificheranno le proteste nei prossimi mesi, ma c’è da stare certi che “non si fermeranno”.

“Non credo che finiranno in un partito o in gruppi organizzati tradizionali”, sostiene Della Porta, che ha organizzato una conferenza di due giorni dedicata al tema il 23 e 24 ottobre. È convinta che la rete costruita in questi due anni, le nuove forme di aggregazione e di dissenso nate tra ambiti diversi “rimarranno in piedi per molto tempo e avranno un effetto sul lungo periodo. Sono nate delle forme nuove di protesta e delle nuove alleanze che sono destinate a rimanere, anche se la fase più acuta delle mobilitazioni dovesse essere superata”.

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