Una persona anonima ha filmato il momento in cui un pezzo di montagna è crollato su centinaia di persone. Sono immagini agghiaccianti che mostrano il panico e il caos in una nuvola di polvere. Quando tutto si è concluso, è rimasta la desolazione, insieme a un bilancio pesantissimo: almeno settanta morti.
Il disastro è successo il 15 novembre in una miniera di rame e cobalto nella zona orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). È il tipo di incidente che di solito passa inosservato tra le disgrazie del mondo. Ma allora perché parlarne? Perché tutto, in questa storia, è scandaloso. E soprattutto riguarda da vicino anche noi, consumatori passivi.
A estrarre dal sottosuolo congolese le ricchezze indispensabili per produrre i dispositivi digitali come i nostri smartphone e quelli della transizione ecologica come i pannelli solari, ci sono grandi aziende minerarie cinesi o occidentali. Ma anche centinaia di migliaia di singoli minatori, che cercano fortuna in pozzi abbandonati o non più redditizi. Sono questi minatori che agiscono “fuori dal sistema” a essere stati colpiti dalla catastrofe di Kalando.
Nelle loro miniere non ci sono regole. Nessuna sicurezza e nessuna norma sociale, e il lavoro dei bambini è la norma. L’incidente sembra sia successo su un ponte di fortuna costruito in un punto allagato, che ha ceduto quando degli spari dell’esercito hanno scatenato il panico.
I minerali raccolti da questi minatori indipendenti vengono acquistati dagli intermediari e spesso finiscono negli impianti di raffinamento cinesi, e da lì nei dispositivi elettronici fabbricati in Cina e venduti nel resto del mondo.
E tutto il mondo fa finta di niente: il governo congolese, che non si è mai preoccupato di rendere più dignitoso e sicuro lo sfruttamento delle risorse; le società minerarie (di qualunque paese), che non vogliono perdere la loro fetta della torta; e infine i produttori dei dispositivi digitali, che giurano di fare attenzione alla provenienza dei minerali.
La maledizione delle risorse
La miniera dove è successo l’incidente si trova a quaranta chilometri dalla città di Kolwezi, nell’ex Katanga dell’epoca coloniale belga. È lo stesso luogo dove fu ucciso Patrice Lumumba, pochi mesi dopo l’indipendenza del Congo, nel 1960. L’obiettivo dell’omicidio era proprio mantenere il controllo delle ricchezze minerarie. La Cia temeva che l’Unione Sovietica si impadronisse dei giacimenti del Katanga.
Nel 1978, sempre a Kolwezi, la legione straniera corse in aiuto del regime di Mobutu, minacciato dai ribelli. Ancora oggi i minerali sono al centro degli scontri tra milizie che combattono una guerra per procura tra la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda. Ormai da decenni il sottosuolo è la risorsa ma anche la maledizione della Rdc.
Negli anni novanta, quando si capì che la produzione di diamanti serviva a finanziare le guerre in Africa, si cominciò a parlare di blood diamonds, diamanti di sangue, e si stabilì un processo di certificazione per impedire il loro commercio. Forse, a questo punto, dovremmo parlare di “smartphone di sangue”, nella speranza di fermare la carneficina nelle miniere del Congo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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