Negli anni ottanta, mentre gli statunitensi erano travolti dalla mania del fitness e dalla crescente ossessione per il benessere personale, il desiderio di migliorarsi smise di limitarsi alle attività all’aria aperta e arrivò anche nelle case. I bagni, in particolare, cominciarono a diventare più grandi, così come le vasche e le docce. Gli arredatori spingevano per ristrutturare gli ambienti usando le ultime innovazioni tecnologiche, incoraggiando a ripensare il bagno come “spa di lusso”. Grazie a questi cambiamenti architettonici, igiene e intrattenimento potevano convivere senza problemi. Con il tempo la cultura del bagno è andata ben oltre la semplice igiene personale.
Secondo Alexander Kira, docente di architettura alla Cornell university che negli anni sessanta pubblicò un celebre studio sulla progettazione dei bagni, attività come “fumare, mangiare, bere, leggere, guardare la tv, ascoltare la radio, telefonare, giocare, masturbarsi” con il tempo sono diventate accettabili. Secondo Kira, “la distinzione tra ciò che costituisce un’attività primaria e una secondaria in bagno a volte è offuscata dalle motivazioni personali”.
Kira faceva l’esempio di “una madre con molti figli piccoli che si rifugia nella vasca da bagno con la sua rivista preferita”: è difficile dire se la cosa più importante per lei sia fare il bagno o leggere. Ciò che è “permesso” fare in bagno dipende da tanti fattori: il periodo storico, lo status socioeconomico della famiglia, i ruoli domestici (e il numero di persone in casa), le norme di genere, le caratteristiche architettoniche (quanti bagni ci sono e di quanti metri quadrati?) fino all’atteggiamento culturale nei confronti della polvere, dei germi e della sporcizia.
Per molto tempo l’uso della tecnologia multimediale nei bagni ha rappresentato un lusso per pochi. Ma non si trattava solo di una questione economica: proprio come con il telefono agli inizi del novecento, molte persone si rifiutavano di usare questi strumenti anche quando ne avevano la possibilità perché il bagno era considerato uno spazio sacro, separato dal trambusto della vita quotidiana. Queste interpretazioni sociali si intrecciavano con i limiti tecnici dell’epoca (e forse li rafforzavano).
Negli anni quaranta e cinquanta, quando furono lanciate sul mercato le radio portatili, i produttori erano consapevoli dei rischi legati al contatto con l’acqua. Una pubblicità della Zenith del 1947 diceva: “Le nostre radio portatili non funzionano sott’acqua, ma funzionano in tutti gli altri posti”. L’idea di accendere un dispositivo elettrico in bagno era impensabile: il rischio di prendere la scossa, e il poco spazio disponibile lontano da fonti d’acqua, rendevano l’ambiente poco adatto.
Le radio da doccia conquistarono il pubblico perché promuovevano l’idea che un corpo in forma fosse prima di tutto un corpo pulito
In salute
Negli anni settanta i prodotti pensati per essere usati in bagno erano ancora curiose novità, come la radio della Sears, Roebuck and Company, che si fissava alle pareti o si appoggiava su una mensola. Un modello simile, prodotto dalla Windsor e rivolto al “dirigente d’azienda”, si appendeva alla parete con delle strisce adesive e aveva il sostegno in cui infilare il rotolo della carta igienica. Molti di questi dispositivi erano alimentati a batteria, soluzione che eliminava la pericolosità dei cavi elettrici a contatto con l’umidità.
Ma negli anni ottanta i produttori individuarono un nuovo potenziale pubblico. In un’epoca di grande attenzione alla salute e al fitness, si cominciò a proporre la doccia come nuovo spazio di intrattenimento: alcuni apparecchi per la musica, come il celebre Sports Walkman, potevano non solo resistere agli schizzi ma anche bagnarsi. Pensate soprattutto per un pubblico tra i 15 e i 30 anni, le radio da doccia erano relativamente economiche (tra i 20 e i 35 dollari), con scocche in plastica e rivestimenti resistenti all’acqua, ideali per essere montate alla parete. Tra i modelli più famosi c’erano la Wet Tunes della Salton e la Soaprano della Biforia Usa. Adweek aveva previsto che nel 1985 sarebbero stati venduti 1,5 milioni di radio da doccia (per un totale di trenta milioni di dollari), con una stima di crescita di due milioni di pezzi nel 1986.
Questi dispositivi si diffusero rapidamente perché costavano poco, erano in plastica e presentavano l’intrattenimento come parte integrante della cultura dell’igiene e del fitness. Quotidiani, riviste e grandi magazzini li promuovevano come regali perfetti per Natale, e molte aziende li usavano come premi per i concorsi. Erano piccoli gadget, prodotti in numerose varianti tra la metà e la fine degli anni ottanta, come la Tub-Tunes, la Nep-Tunes (pensata per la piscina) e la Hit Tunes. Lester Gribetz, direttore generale del reparto casalinghi della catena Bloomingdale’s, fu il primo a rendersi conto che si trattava di una moda passeggera: da un anno all’altro le vendite si dimezzarono. I consumatori non li consideravano oggetti indispensabili, come per esempio l’orologio resistente alle condizioni estreme o la macchina fotografica impermeabile. Li vedevano come accessori pensati per un certo tipo di pubblico che voleva rendere più divertente il momento del bagno.
I bagni hanno una lunga e gloriosa storia legata alla pornografia, ai sex toy e alle scritte proibite sulle pareti di quelli pubblici
In ogni caso le radio da doccia conquistarono l’attenzione del pubblico perché promuovevano l’idea che un corpo in forma fosse prima di tutto un corpo pulito: lavarsi e ascoltare musica, o sentire le notizie, erano due gesti collegati. La pubblicità mostrava giovani ventenni bianchi che “ballavano” mentre si lavavano, comunicando l’immagine di un corpo attivo. Un tema ricorrente era cantare o fischiettare sotto la doccia, cosa che in tanti facevano già prima dell’avvento di questi dispositivi. La familiarità di quest’immagine serviva a rendere credibile l’idea che una tecnologia impermeabile potesse integrarsi facilmente nella routine di tutti i giorni, aggiungendo un tocco di spensieratezza. Anche se la praticità non era l’argomento principale delle pubblicità della radio da doccia, i produttori la descrivevano come uno strumento per stare al passo con i tempi senza perdersi i risultati delle partite o le ultime notizie, un modo per fare una pausa senza fermare il cronometro. La Salton prometteva che con le sue Wet Tunes non c’era il rischio di perdersi la hit del momento andando al bagno, una preoccupazione espressa dai consumatori quarant’anni prima.
Nel descrivere l’interazione tra dispositivi e acqua, il marketing evitava di usare un linguaggio troppo aggressivo. Sulla confezione e negli spot televisivi della Splash Dance, e anche nelle pubblicità sui giornali della Wet Tunes, l’elemento liquido non era quasi menzionato. Tranne per il consueto cenno alla “impermeabilità”, le pubblicità non facevano nulla per evocare durezza, robustezza o sfida agli elementi naturali.
La radio si fissava alla parete e resisteva agli schizzi dei capelli bagnati di chi stava sotto la doccia: un dispositivo assolutamente normale, quasi invisibile. L’integrazione nell’ambiente era diversa rispetto, per esempio, a quella dell’orologio impermeabile che si immergeva nell’acquario, in piscina o in mare, perché la tecnologia e l’ambiente circostante non erano presentati come esotici o potenzialmente pericolosi. Gli spruzzi o gli schizzi erano considerati insignificanti, ordinari: grazie alla scocca in plastica, la radio continuava a funzionare normalmente. Chi la comprava non si metteva fisicamente alla prova come un nuotatore o un escursionista: era una persona comune, in un contesto domestico e familiare (e femminilizzato), che semplicemente si lavava. Questo approccio rispecchiava perfettamente l’intento dei produttori: rendere l’ascolto di musica un’abitudine quotidiana, non un’esperienza eccezionale.
La beatitudine
Se le radio da doccia erano gadget economici, all’estremo opposto del mercato c’erano vasche di ultima generazione capaci di integrare la musica — insieme a molte altre tecnologie mediatiche — nell’esperienza del bagno. Questi modelli multifunzione restavano fuori dalla portata del consumatore medio ma rappresentavano un’idea futuristica di un bagno completamente tecnologico e mediatizzato. La vasca Sensorium, prodotta dall’American Standard, costava 25mila dollari: era dotata di una tastiera con 22 comandi, permetteva di parlare al telefono o via interfono, controllare le serrature di casa, ascoltare musica e guardare la tv. Anche la “Bath Womb”, della WaterJet Corporation, aveva opzioni simili. Ma a volte queste funzionalità erano viste come un fastidio più che come garanzia di un completo relax. Diceva una recensione dell’epoca: “Appoggiate la testa sul cuscino d’acqua, che vi farà un massaggio delicato; accendete l’impianto stereo per ascoltare musica soft dalle casse impermeabili situate ai lati della vostra testa; avviate un lieve idromassaggio grazie ai nove getti d’acqua presenti nella vasca… Se in questa vasca si potessero anche conservare razioni alimentari, ci potreste restare per settimane. Cosa potrebbe mai infrangere tanta beatitudine? Ancora una volta, la risposta è: l’elettronica. Buttate un occhio all’orologio digitale integrato e vi accorgete di essere in ritardo per un appuntamento. Ma prima ancora di uscire dalla vasca, il vostro capo vi chiama sul telefono impermeabile per dirvi che le tre settimane di ferie dell’anno scorso, che neanche avete preso, non saranno pagate”.
Le tecnologie, insomma, assumevano significati contrastanti. Da un lato, la musica soft offriva il contesto ideale per il relax in uno spazio protetto; dall’altro, le pressioni dell’orologio e del telefono irrompevano nella “beatitudine” del bagno, trasformando il tempo del benessere in tempo di lavoro. Queste percezioni erano influenzate da come le singole persone intendevano il ruolo dei diversi media e ne interpretavano la funzione. Mentre tanti sui giornali concordavano sul fatto che “il bagno è molto più che lavarsi”, non tutti riuscivano ad accettare l’introduzione delle tecnologie (soprattutto elettriche ed elettroniche) in spazi che avrebbero dovuto rimanere isolati e inviolabili.
Fare il bagno può avere connotazioni molte diverse: dalla salute (pulizia dai germi) alla cura di sé, fino alla sensualità e alla sessualità. Non a caso, i bagni hanno una lunga e gloriosa storia legata alla pornografia, ai sex toy e alle scritte proibite sulle pareti di quelli pubblici. Per questo il tipo di contenuti “consentiti” al loro interno e come questo consenso si interseca con le norme sociali, le questioni di genere e le pratiche tabù, rivelano la molteplicità di significati evocata dal corpo bagnato.
Una famosa scena del film Pretty woman (1990) rifletteva questa complessità, rappresentando una donna nella vasca da bagno come oggetto del desiderio maschile. Julia Roberts interpreta una simpatica lavoratrice del sesso che ha una relazione con un dirigente affermato (Richard Gere); a un certo punto la vediamo immersa nella schiuma mentre canta appassionatamente Kiss di Prince indossando le cuffie del walkman giallo Sony Sports, poggiato sul bordo della vasca. Persa nella musica, non si accorge che Gere è davanti a lei: una sorta di doppia immersione, nell’acqua e nell’ascolto. La scena ci dice che il walkman è perfettamente compatibile con l’umidità: le cuffie sono avvolte dalla schiuma del sapone. Questa normalizzazione del corpo bagnato è lo specchio di una sessualità sanificata, né sfacciata né minacciosa, con Roberts coperta di schiuma e il suo personaggio che si trasforma positivamente nel corso del film.
Pretty woman non presenta la protagonista come una consumatrice sbadata che trascura le necessità del suo dispositivo, ma come una donna che dà la priorità alla cura di sé, accompagnata dal giusto sottofondo sonoro. Ma se da una parte questa scena idealizza il corpo bagnato, mostra anche una lavoratrice del sesso sospesa tra due mondi, ognuno definito dalla classe sociale e dal genere: né la vasca né il walkman sono suoi. Cantare nella vasca aiuta Roberts a familiarizzare con lo stile di vita edonistico e lussuoso che un magnate può offrire a una lavoratrice del sesso quando lei adotta le sue abitudini. Il dispositivo, ormai acclimatato, la fa sentire a casa in un mondo bagnato e in un modo di vivere il bagno che non sono i suoi. Forse le tecnologie sono diventate più compatibili con l’acqua, ma certamente non per tutti allo stesso modo. ◆ fas
Questo articolo è un adattamento dal libro di Rachel Plotnick License to spill (The Mit Press 2025).
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati