Dieci giorni fa la guerra civile in Sudan, in corso da due anni e mezzo, ha smesso di essere invisibile sui mezzi d’informazione. Riaffacciandosi sulle prime pagine dei giornali con la città di Al Fashir, nella regione del Darfur, caduta nelle mani dei paramilitari e le notizie di terribili massacri.

Qualche giorno dopo, però, la guerra è ripiombata nell’oblio, senza che il momentaneo sconcerto suscitato abbia cambiato granché. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha sottolineato che la violenza in Sudan sta degenerando ed è ormai “incontrollabile”, mentre le testimonianze dei sopravvissuti sono talmente spaventose che la Corte penale internazionale ha deciso di occuparsi della vicenda. Le organizzazioni umanitarie, intanto, cercano di aiutare la popolazione civile.

Ma sembra che niente e nessuno abbia il potere o la volontà di agire concretamente per fermare la guerra. Perché tanta indifferenza? Prima di tutto l’inazione generale è il riflesso del collasso del sistema di governo internazionale. L’Onu grida nel deserto senza che nessuno ascolti e le uniche risposte che arrivano sono di carattere umanitario.

Tranne nei casi in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump pensi che valga la pena cambiare qualcosa. Negli ultimi giorni un emissario statunitense in Sudan ha tentato invano una mediazione.

Indifferenza colpevole

Ci sono però anche altre ragioni, ed è qui che l’indifferenza diventa colpevole. Per fermare una guerra bisogna prima di tutto arrestare i flussi di armi. In passato, quando ancora valevano delle regole, si cominciava decretando un embargo sulla consegna di armamenti alle parti in conflitto. Oggi, però, non c’è più un’autorità capace di prendere un provvedimento simile e tanto meno di farlo rispettare.

Soprattutto perché in Sudan la guerra civile ha sponsor molto potenti. Le Forze di supporto rapido (Rsf), la milizia guidata da Mohamed Hamdan Daglo detto Hemetti, un uomo sospettato da anni di aver commesso crimini di guerra, possono contare sul sostegno degli Emirati Arabi Uniti, come confermano diversi rapporti dell’Onu e di ricercatori indipendenti.

Abu Dhabi fornisce armi, droni di fabbricazione cinese e perfino mercenari colombiani alla milizia di Hemetti. Gli Emirati hanno un ruolo di primo piano in Medio Oriente, sono partner economici di Trump e della Francia, che mantiene una base ad Abu Dhabi. Dunque nessuno ha il coraggio di esercitare pressioni degne di questo nome. Il massacro di Al Fashir è stato condannato, certo, ma senza nominare la partecipazione degli Emirati.

Nel conflitto sono implicati altri paesi importanti della regione come l’Egitto e l’Arabia Saudita, che sostengono l’esercito nazionale comandato dal generale Abdel Fattah al Burhan.

Quando il generale Al Burhan, all’epoca alleato di Hemetti, ha bloccato la transizione civile in corso in Sudan dopo decenni di dittatura, il mondo non ha fatto nulla, e neanche quando è cominciata la contesa per il potere, che ha trascinato il paese in una guerra a oltranza. Ma una cosa è lasciare fare, un’altra è gettare benzina sul fuoco come fanno le potenze della regione.

Nel contesto attuale, segnato dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, nessuno ha molta voglia di partecipare a iniziative comuni, ma almeno i paesi che hanno un po’ di influenza potrebbero fare pressione per far finire le ingerenze esterne. Sarebbe un primo passo per fermare il calvario di milioni di civili che si ritrovano ostaggi di capi militari irresponsabili.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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