Dopo la caduta di Al Fashir, la città sudanese che il 26 ottobre è finita sotto il controllo dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, i massacri non si sono fermati. Si stimano migliaia di morti. Il 30 ottobre, in una riunione di emergenza sul Sudan, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha espresso “profonda preoccupazione” per la spirale di violenze, affermando di avere “informazioni credibili su esecuzioni di massa”. Il giorno successivo l’Unione europea ha condannato la “brutalità” delle Rsf e ha promesso di ricorrere a “tutti i suoi strumenti diplomatici, comprese le sanzioni” per “trovare una soluzione pacifica”.
Ma molti sudanesi sentiti da Le Monde – attivisti per i diritti umani, avvocati, giornalisti, esperti – sono critici nei confronti della comunità internazionale, che finora non si è mobilitata per il Sudan. “I paesi occidentali moltiplicano le condanne ma non fanno niente”, afferma Kholood Khair, analista e fondatrice del centro studi Confluence advisory.
“Il dramma di Al Fashir non è una sorpresa. Sapevamo da tempo che poteva succedere. Ma i paesi occidentali si sono limitati a fare dichiarazioni prive di effetti, e per questo hanno una responsabilità collettiva. Il loro disinteresse è una colpa”, conferma un diplomatico occidentale che vuole mantenere l’anonimato.
Negoziati falliti
Dopo un assedio di diciotto mesi, che ha portato alla fame le duecentomila persone rimaste in città, e dopo centinaia di bombardamenti delle Rsf, la catastrofe di Al Fashir, l’ultima roccaforte dell’esercito in Darfur, era prevedibile. Ma si poteva evitare? Fino a qualche giorno prima dell’assalto finale erano in corso a Washington dei colloqui indiretti per trovare una via d’uscita.
Su iniziativa del “quartetto” composto da rappresentanti di Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, le delegazioni delle forze armate sudanesi (Saf) e delle Rsf erano state invitate nella capitale statunitense con l’obiettivo di firmare un cessate il fuoco che avrebbe dovuto portare a una tregua umanitaria di tre mesi. Ma dopo un inizio incoraggiante, il 25 ottobre il processo è deragliato e, secondo diverse fonti, sono stati gli Emirati a far saltare i negoziati. Per la maggior parte degli osservatori è impossibile che gli Emirati non sapessero dell’offensiva delle Rsf, di cui sono alleati.
Dopo i massacri di Al Fashir il coinvolgimento di Abu Dhabi nella guerra in Sudan è finito al centro dell’attenzione, così come la complicità passiva dei loro alleati europei. “I paesi occidentali hanno fatto la figura degli stupidi. Hanno assecondato le Rsf e, per estensione, gli Emirati, lasciando che i paramilitari usassero i colloqui come copertura mentre continuavano a commettere atrocità”, afferma Khair. Durante i negoziati che si erano tenuti a Jedda, in Arabia Saudita, nell’estate del 2023, i combattenti delle Rsf avevano compiuto una pulizia etnica a Geneina. Nell’aprile 2025, negli stessi giorni di un vertice a Londra sul Sudan a cui presenziavano anche i rappresentanti delle Rsf, avevano perpetrato massacri a sfondo etnico nel campo di Zamzam, vicino ad Al Fashir, nel Darfur Settentrionale.
“I paesi occidentali dicono di non sapere come fermare la crisi. Ma sono legati agli Emirati da interessi reciproci – in particolare in Ucraina e a Gaza – che gli impediscono di agire”, conclude la ricercatrice sudanese.
Se Abu Dhabi continua a negare di sostenere militarmente le Rsf, una lunga serie di rapporti di esperti e di inchieste giornalistiche dimostrano il contrario. Fin dall’inizio della guerra, lo staterello del Golfo ha usato la sua influenza e i suoi petrodollari per sostenere il generale Hemetti, alleato di lunga data e principale fornitore di oro di contrabbando e di mercenari per la guerra in Yemen.
L’Europa chiude gli occhi
Attraverso una complessa catena logistica che coinvolge paesi come il Ciad, la Libia e il Sud Sudan, ma anche l’Uganda e la Somalia attraverso il porto di Bosaso, Abu Dhabi ha messo in piedi un ponte aereo che gli permette di inviare in Sudan armamenti di ultima generazione, compresi droni di fabbricazione cinese, armi leggere, mitragliatrici, veicoli, artiglieria, mortai, munizioni, sofisticati sistemi di difesa antimissile e perfino un contingente di centinaia di mercenari colombiani da schierare sul campo di battaglia ad Al Fashir. L’innegabile coinvolgimento emiratino nella guerra in Sudan suscita un silenzio imbarazzato tra molti partner occidentali, anche perché Abu Dhabi ha fornito alle Rsf armi europee.
◆ Crescono i timori per le circa 200mila persone che erano rimaste nella città di Al Fashir, strappata all’esercito dalle Forze di supporto rapido (Rsf) il 26 ottobre. Secondo un’inchiesta di Sky News, Sudan War Monitor e Lighthouse Reports, un alto comandante della milizia ha riferito di almeno settemila morti in città. Ha inoltre affermato che le Rsf hanno preso di mira i civili delle comunità non arabe e ucciso tra le 300 e le 400 persone in alcune aree. Non è però possibile verificare in modo indipendente il bilancio, anche perché Al Fashir è completamente isolata. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dei circa 70mila abitanti fuggiti, meno di diecimila sono arrivati nelle zone circostanti indicate come sicure.◆Il 3 novembre almeno sette donne e bambini sono morti in un bombardamento delle Rsf su un ospedale pediatrico a Karnoi, nel Darfur Settentrionale. Lo stesso giorno quaranta persone sono state uccise in un attacco ad Al Luweib, nel Kordofan Settentrionale. Sempre il 3 novembre è stata dichiarata la carestia ad Al Fashir e a Kadugli, nel Kordofan Meridionale. Almeno 21,2 milioni di sudanesi, circa il 45 per cento della popolazione, vivono in situazione di insicurezza alimentare. The New Arab
In Sudan sono arrivati equipaggiamenti francesi prodotti dai gruppi Knds France e Lacroix, installati su veicoli blindati emiratini (secondo l’ong Amnesty international); armi di fabbricazione britannica (secondo The Guardian), canadese (secondo The Globe and Mail) e bulgara (secondo France 24). Tutto questo in violazione dell’embargo europeo, che vieta “la vendita, la fornitura, il trasferimento o l’esportazione di armamenti al Sudan da parte di cittadini degli stati membri o dal territorio degli stati membri”.
L’Unione europea ha chiuso gli occhi sulle spedizioni di armi emiratine alle Rsf. Secondo un’inchiesta del quotidiano italiano Il Foglio, a luglio i servizi d’intelligence statunitensi hanno avvisato la missione navale europea Irini che un mercantile battente bandiera panamense, partito da un porto degli Emirati e diretto a Bengasi (una città dell’est della Libia sotto il controllo del maresciallo Khalifa Haftar), trasportava munizioni e centinaia di pick-up destinati al Sudan. Dopo un’ispezione, la nave è stata autorizzata a continuare il suo viaggio.
“Grazie a informazioni raccolte da fonti aperte, possiamo dimostrare che il sostegno emiratino alle Rsf è raddoppiato dopo che l’esercito ha riconquistato Khartoum nell’aprile 2025. Gli Emirati sono disposti a tutto per far vincere le Rsf, anche a lasciare che commettano atrocità come quelle di Al Fashir”, spiega Cameron Hudson, analista del Centro strategico per gli studi internazionali con sede a Washington.
Le forze armate sudanesi, a loro volta responsabili di crimini di guerra contro i civili, sono sostenute da una rete di alleati regionali e internazionali (Egitto, Qatar, Turchia, Russia, Iran, Arabia Saudita ed Eritrea). Ma il flusso di armi provenienti dal Golfo ha permesso agli uomini di Hemetti di ribaltare la situazione sul campo. “Senza l’appoggio degli Emirati alle Rsf, la guerra sarebbe finita da tempo”, commenta Hudson.
La città di El Obeid, nel Kordofan Settentrionale, assediata da due anni, potrebbe essere il prossimo bersaglio dei paramilitari. Alla fine di ottobre le Rsf hanno commesso violenze contro i civili: nella località di Bara hanno ucciso almeno 47 persone, tra cui cinque dipendenti della Mezzaluna rossa chiaramente identificabili. Lo denuncia il sindacato dei medici sudanesi, secondo cui le Rsf hanno messo a morte 38 civili nella regione di Umm Dam Haj Ahmed, nel Kordofan Settentrionale, perché accusati di avere legami con l’esercito. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati