Di questi tempi sta emergendo una nuova frattura globale che rischia di modellare il mondo del futuro ancora di più delle divergenze tradizionali, culturali o religiose. Parlo della separazione tra i paesi che hanno i mezzi necessari per sviluppare le intelligenze artificiali (ia) e quelli che non ce l’hanno.

Un rapporto dell’università di Oxford ha elencato per la prima volta gli stati che ospitano le enormi banche dati indispensabili per lo sviluppo dell’ia. Nella lista figurano 32 nomi, ovvero il 16 per cento dei paesi del mondo. Come prevedibile, si comincia dalla Cina e dagli Stati Uniti, ma nell’elenco ci sono anche i paesi europei. Questa concentrazione risulta ancora maggiore se prendiamo in considerazione le aziende che investono nel settore.

Il resto del mondo, infatti, deve accontentarsi delle briciole. L’Africa e l’America Latina sono per il momento le grandi escluse.

L’ia non è una semplice tecnologia, ma una rivoluzione che sta trasformando ogni cosa, dal modo di fare la guerra alla medicina, alla vita delle aziende. Essere tra i protagonisti e non tra gli esclusi è dunque una garanzia di sovranità e di un futuro prospero. Nel suo libro Homo deus (Bompiani 2015), lo storico Yuval Noah Harari afferma che la distanza tra questi due gruppi di paesi non sarà mai colmata, a differenza di quanto è successo con la rivoluzione industriale del diciannovesimo secolo, che alla fine ha coinvolto il mondo intero.

Questa divisione rischia invece di congelare una certa gerarchia tra le nazioni, con conseguenze forti sull’economia, sulla capacità di trattenere i talenti in patria e sulla possibilità di ognuna di difendere i propri interessi in un mondo sempre più disuguale.

Di recente il New York Times citava il caso del Kenya, in cui i ricercatori sono costretti a usare banche dati all’estero e a lavorare la notte, quando i programmatori statunitensi dormono e quindi i dati sono trasferiti in tutto il mondo a velocità maggiori.

Nel 2012 un leader politico aveva capito con grande anticipo che il mondo sarebbe stato dominato dal paese che avrebbe monopolizzato l’intelligenza artificiale. Quel leader era Vladimir Putin. Paradossalmente, il presidente russo non ha seguito la propria intuizione, lanciandosi invece in una politica imperiale all’antica, al punto che oggi la Russia non figura tra i leader del settore dell’ia (diversamente dal suo alleato cinese).

La rivalità sinoamericana per la leadership del ventunesimo secolo va in scena soprattutto nel campo della tecnologia e in particolare in quello dell’intelligenza artificiale. Gli Stati Uniti hanno cercato di limitare (più che bloccare) le esportazioni dei semiconduttori necessari allo sviluppo dell’ia, quelli prodotti dall’azienda americana Nvidia, ma in questo modo Washington ha innescato una crescita vertiginosa del settore dei semiconduttori cinesi, con multinazionali come Huawei e Alibaba che stanno recuperando terreno a grande velocità.

L’Europa è ancora molto indietro, ma quanto meno dispone dell’infrastruttura indispensabile, dalla capacità di produzione elettrica alle reti digitali, alle competenze. Uno dei grandi progetti annunciati in Francia consumerà tanta elettricità quanta ne produce la nuova centrale nucleare di Flamanville. Parliamo di numeri vertiginosi.

La posta in gioco è la sovranità, certo, ma ospitare sul proprio territorio le banche dati di aziende straniere non basta. La lista dei 32 paesi citati dal rapporto dell’università di Oxford mostra un apartheid digitale che rimarrà molto difficile da superare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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