Fino a che punto arriverà l’escalation tra Israele e Iran? Nell’arco di pochi giorni i due paesi, nemici da decenni, hanno raggiunto un livello senza precedenti nello scontro. Lo stato ebraico non aveva mai condotto un attacco così diretto contro il programma nucleare e le strutture militari e industriali iraniane, mentre l’Iran è riuscito per la prima volta a colpire il cuore del territorio israeliano con i suoi missili, provocando numerose vittime civili.

Al momento l’evoluzione del conflitto è difficile da decifrare. Di sicuro il futuro dipenderà dalle reali intenzioni di Israele e dell’Iran, ma anche dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nel contesto di una guerra che contraddice le sue ambizioni di pacificatore, Trump si limita a parlare, senza agire.

L’incognita principale è legata all’obiettivo di guerra di Israele. Tel Aviv si accontenterà, se così si può dire, di distruggere il programma nucleare di Teheran? O andrà avanti fino a provocare un crollo del governo iraniano, un cambio di regime dal sapore neoconservatore che modificherebbe la natura dello scontro?

Nessuno dubita che il desiderio del premier israeliano Benjamin Netanyahu sia far cadere il regime iraniano, ma non è chiaro se abbia i mezzi per farlo o riuscirà a ottenerli. Da un lato è difficile rovesciare un regime solo con attacchi aerei, ma dall’altro c’è sempre la possibilità di scatenare un caos sufficiente per far crollare uno stato.

Negli ultimi trent’anni nessun cambio di regime imposto dall’esterno ha prodotto risultati positivi: né in Afghanistan nel 2001 né in Iraq nel 2003 e neanche in Libia nel 2011. In Siria, a dicembre, sono stati i combattenti delle forze locali a far cadere Bashar al Assad, per quanto sostenuti all’estero. A prescindere dalla detestabilità di un regime oppressivo, credere che la caduta di quello di Teheran possa creare progresso e libertà nel paese significa essere ingenui e confondere i desideri con la realtà dei fatti. Un crollo del regime iraniano sotto i colpi dell’esercito israeliano, infatti, non farebbe altro che alimentare un caos da cui potrebbero emergere forze oppressive e antidemocratiche.

Israele ha la tentazione di andare fino in fondo, prima di tutto perché l’Iran dichiara da decenni di voler cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra. E poi perché le figure più messianiche del governo israeliano hanno una visione apocalittica della storia (in senso biblico) e pensano che il caos potrebbe permettergli di raggiungere i loro obiettivi. Gli sviluppi degli ultimi mesi, cominciati con la reazione all’attacco condotto da Hamas il 7 ottobre 2023, incoraggiano questa teoria.

Da qualche giorno Trump sembra subire gli eventi, più che dominarli. Anche se il presidente statunitense non si è dichiarato favorevole all’azione militare, lascia fare e approva l’operato di Netanyahu. Oggi Trump vorrebbe la pace tra Israele e l’Iran, ma solo a patto che Teheran accetti un accordo sulla sospensione dell’arricchimento dell’uranio.

Il governo iraniano si dice pronto a fermare la guerra se Israele farà altrettanto, ma è poco probabile che succeda senza la distruzione del programma nucleare di Teheran.

Trovandosi in posizione di debolezza, finora l’Iran ha cercato di scongiurare un intervento degli Stati Uniti o dei paesi del Golfo, privilegiando nelle sue risposte una strategia volta alla sopravvivenza del regime. Questo, però, non significa che il governo di Teheran sia disposto a cedere alle pretese statunitensi pur di mettere fine alla guerra.

Davanti al fatto che la crisi potrebbe subire un’ulteriore escalation, passano in secondo piano sia gli sforzi per mettere fine alla tragedia di Gaza sia le ennesime violazioni del diritto internazionale. La forza è diventata ormai l’unico parametro di un mondo in cui i popoli e i loro destini rappresentano una variabile secondaria.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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