Donald Trump ha fatto una confessione appassionata: “Mi piace il presidente cinese Xi, mi è sempre piaciuto e mi piacerà sempre. Ma è molto duro ed è difficile concludere un accordo con lui”.

Per commentare tutte le frasi di Trump servirebbe un’eternità, ma questa merita la nostra attenzione. Cosa pensava il presidente statunitense quando ha imposto dazi del 145 per cento alla Cina, divieti in campo tecnologico e revoche dei visti per 270mila studenti cinesi? Credeva che il segretario generale del Partito comunista cinese, l’uomo che “gli piace”, sarebbe capitolato sotto la pressione americana? Era davvero convinto che si sarebbe “inginocchiato davanti a lui per implorare un accordo”, come ha dichiarato vantandosi nei suoi raduni politici?

Se così fosse, significherebbe che Trump ha clamorosamente frainteso la natura del confronto tra i due giganti del ventunesimo secolo, che con ogni probabilità definirà il rapporto di forze tra i due paesi per decenni. Gli Stati Uniti sono perfettamente in grado di colpire l’economia cinese, ma la Cina ha una capacità di sopportare le difficoltà di gran lunga superiore a quella degli statunitensi, anche grazie alla natura del suo sistema politico.

Pechino ha pigiato sul freno delle esportazioni delle terre rare, i minerali preziosi e indispensabili per l’industria tecnologica di cui domina il mercato mondiale. È bastato questo per fare male. Trump è furioso, perché in occasione di un incontro a Ginevra organizzato il mese scorso i cinesi avevano promesso di riprenderne le esportazioni. Il problema è che il processo per concedere le licenze di esportazione si sta rivelando particolarmente lento, un supplizio che permette a Pechino di dimostrare la sua capacità di colpire.

Oggi in diversi settori industriali si vive una forte tensione, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, dove alcuni magneti realizzati con terre rare cominciano a mancare. Il 4 giugno il Wall Street Journal ha scritto che i costruttori di auto statunitensi, davanti al rischio di dover chiudere le loro fabbriche, vorrebbero aggirare l’embargo cinese producendo i loro motori in Cina. Sarebbe l’unico modo per garantirsi l’approvvigionamento necessario.

È un paradosso, perché i dazi di Trump avevano proprio l’obiettivo di riportare la produzione negli Stati Uniti, ma così rischiano di ottenere il risultato opposto. Il presidente vorrebbe decretare uno stato d’emergenza in campo economico che gli permetterebbe di accelerare la concessione dei permessi per estrarre le terre rare negli Stati Uniti, ma è una soluzione a lungo termine, che lascerebbe intatti i problemi nelle prossime settimane.

Questa situazione era assolutamente prevedibile, anche perché la Cina ha già utilizzato una volta l’arma dell’embargo sulle terre rare: lo ha fatto alcuni anni fa contro il Giappone per manifestare il proprio malumore. Com’è possibile che l’amministrazione statunitense non avesse previsto una simile evoluzione?

Questo errore di calcolo mette gli Stati Uniti in una posizione di debolezza in un momento in cui dovrebbero riprendere i negoziati commerciali tra Washington e Pechino, e circola la notizia di un possibile contatto diretto fra Trump e Xi Jinping.

A rischio di irritare Trump, ci permettiamo di ricordare il soprannome che gli è stato affibbiato a Wall street: Taco, che sta per “Trump always chicken out” e che potremmo tradurre con “Trump alla fine si sgonfia sempre”. La dichiarazione d’amore nei confronti di Xi comincia a somigliare parecchio a una marcia indietro.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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