Nel 1997 l’insegnante e attivista statunitense Jody Williams ha ricevuto il premio Nobel per la pace per il suo impegno come fondatrice e coordinatrice della campagna mondiale contro le mine antipersona. All’epoca la firma del trattato di Ottawa (di cui oggi fanno parte ormai 165 paesi) aveva segnato il successo degli sforzi di Williams per proibire la produzione, lo stoccaggio e l’utilizzo di questo tipo di ordigno, che non distingue tra civili e militari, e continua a uccidere anche decenni dopo la fine dei conflitti.
Oggi la premio Nobel è furiosa. “Ho voglia di gridare”, ha raccontato al quotidiano britannico The Guardian. Il motivo della sua frustrazione è la notizia che cinque paesi dell’Europa dell’est e del nord – la Polonia, i tre stati baltici e la Finlandia – vogliono uscire dall’accordo di Ottawa.
I cinque paesi fanno parte dell’Unione europea e della Nato, e sono i più esposti alla minaccia russa dopo l’invasione dell’Ucraina. Con questa decisione vogliono far presente che sono pronti a usare qualsiasi tipo di arma contro la Russia (che non ha firmato il trattato, come anche gli Stati Uniti e la Cina).
Se il processo avviato sarà portato a termine (la decisione deve ancora essere ratificata dai parlamenti), tra sei mesi i cinque paesi saranno liberi di usare le mine antipersona. La prossimità della scadenza spiega il clamore che ha seguito l’annuncio e anche il tentativo di far cambiare idea agli stati coinvolti.
Williams, capace di unire migliaia di ong in tutto il mondo e coinvolgere diversi governi nella sua causa, spiega così la sua rabbia: “È veramente incomprensibile. Le mine antipersona non impediscono le invasioni e non hanno alcun peso sul risultato di una guerra. Tutto ciò che fanno è mutilare o uccidere i concittadini di chi le piazza”.
In Francia la commissione consultiva nazionale per i diritti dell’uomo ha chiesto al governo di ribadire il suo sostegno al trattato di Ottawa, ma Parigi ha evitato di farlo per non criticare implicitamente gli alleati sul fianco est dell’Europa, alle prese con una situazione inedita.
La scelta di questi paesi avrà due pesanti conseguenze. Da un lato permetterà il ritorno delle mine antipersona sul suolo europeo, con tutti i rischi a breve e lungo termine che questo comporta. Nei paesi dove sono state utilizzate, come la Cambogia o l’Angola, i civili continuano a morire o a restare mutilati da decenni.
Soprattutto, però, la vicenda rappresenta un’ulteriore regressione del diritto umanitario internazionale, eroso su tutti i fronti, dall’Ucraina a Gaza, fino al Sudan. Questo ramo del diritto, pazientemente elaborato dalla fine del diciannovesimo secolo, è stato considerato a lungo come un grande progresso dell’umanità. Oggi, invece, è inquietante vederlo ridimensionato.
Per un’Europa che vorrebbe essere garante del diritto internazionale e della ragione in un’epoca problematica, dare il cattivo esempio (almeno attraverso alcuni stati membri, tra l’altro non i più irrazionali) è un pessimo segnale.
Non è usando le stesse armi vietate e in dotazione agli avversari che l’Unione incarnerà la forza morale indispensabile nel caos del mondo attuale.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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