Fin dai tempi di Stalin e della sua celebre frase “Quante divisioni ha il papa?”, sappiamo bene che l’influenza della chiesa cattolica non si misura in termini di carri armati e missili. L’Unione Sovietica lo ha vissuto sulla sua pelle con Giovanni Paolo II e il suo ruolo nella fine del blocco comunista in Europa centrale.

Primo papa proveniente da un paese del sud del mondo (l’Argentina), Francesco ha cercato di avere un peso, a modo suo, in molte delle crisi che hanno caratterizzato e caratterizzano la nostra epoca. Il suo impatto non può essere misurato immediatamente, come si fa con gli altri uomini di stato, ma emergerà dalla crescita dei semi che ha piantato nelle coscienze.

Nel largo ventaglio delle sue prese di posizione, ci sono tre immagini forti che caratterizzano la sua visione. La prima è rimasta per molto tempo nascosta: ogni sera Francesco telefonava alla piccola comunità cattolica di Gaza, travolta dalla guerra, per chiedere notizie e manifestare la sua compassione.

Il fatto che il parroco di Gaza Gabriel Romanelli sia argentino ha creato un legame tra i due, ma il papa è rimasto costante nel suo sostegno a prescindere. La forza morale che ha mostrato a favore dei palestinesi non ha cambiato la realtà del calvario degli abitanti della Striscia, ma per i cattolici di questo territorio martire la presenza amichevole e quotidiana del pontefice è stata un conforto, come si può verificare in alcuni video che stanno circolando in rete.

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La seconda immagine incarna il principale messaggio lanciato da Francesco durante il suo pontificato, ossia quello della compassione nei confronti dei migranti. La domenica di Pasqua, alla vigilia della sua morte, il papa ha dedicato le sue ultime energie a questo tema: “Quanto disprezzo si nutre a volte verso i più deboli, gli emarginati, i migranti”, ha dichiarato nel suo messaggio urbi et orbi, per poi aggiungere: “In questo giorno, vorrei che tornassimo a sperare e ad avere fiducia negli altri, anche in chi non ci è vicino o proviene da terre lontane con usi, modi di vivere, idee, costumi diversi da quelli a noi più familiari, poiché siamo tutti figli di dio”.

Memorabile, in tal senso, la foto scattata nel 2016 che mostrava il papa di ritorno dall’isola greca di Lesbo insieme a una decina di rifugiati siriani.

Francesco si è opposto alla politica ostile ai migranti dell’amministrazione Trump, ed è significativo che il suo ultimo ospite straniero (poche ore prima della morte) sia stato JD Vance, vicepresidente degli Stati Uniti convertito al cattolicesimo, con una visione ultraconservatrice e agli antipodi rispetto alla sua.

Papa Francesco con l’ayatollah Ali al Sistani a Najaf, Iraq, 6 marzo 2021. (Vatican Media/Ap/LaPresse)

La terza immagine, molto forte a livello spirituale, immortala l’incontro del 2021 a Najaf, in Iraq, tra il papa e il grande ayatollah Ali al Sistani, capo spirituale della maggioranza sciita irachena.

Nella fotografia i due uomini sono seduti di fronte, uno vestito di bianco e uno di nero, entrambi con le mani sulle gambe mentre si osservano in silenzio.

Quello di Najaf è stato un evento senza precedenti. Da quel dialogo interconfessionale Francesco ha ottenuto dall’ayatollah la promessa pubblica di garantire “la pace per i cristiani in Iraq”. Un impegno che contrasta con la minaccia che aleggia sui fedeli cattolici della regione, scossa da tempo da tensioni politico-religiose.

Come in altre circostanze, anche in Iraq il papa si è presentato con la sola forza della sua presenza. “Il messaggio è l’incontro”, ha dichiarato in un’altra occasione rivolgendosi a un dignitario musulmano.

Basta questo per cambiare il mondo? Non esiste una risposta semplice a questa domanda. Quello che sappiamo è che l’eredità di Francesco deve ancora essere scritta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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