Un mese dopo gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, ritenevo ci fossero le prove che l’esercito israeliano avesse commesso crimini di guerra e potenzialmente crimini contro l’umanità nella sua controffensiva su Gaza. Tuttavia, al contrario di quanto sostenevano gli accusatori più severi di Israele, le prove all’epoca non mi sembravano sufficienti per arrivare al crimine di genocidio.
Nel maggio 2024 le forze armate israeliane hanno ordinato a circa un milione di palestinesi rifugiati a Rafah – la città più meridionale e l’ultima rimasta relativamente intatta della Striscia di Gaza – di trasferirsi nella zona costiera di Mawasi, dove non c’erano quasi ripari. L’esercito ha poi proceduto alla distruzione di gran parte di Rafah, un’impresa che ad agosto era in gran parte compiuta.
A quel punto non sembrava più possibile negare che le operazioni delle forze armate israeliane seguivano uno schema coerente con l’intenzione genocida manifestata dalle dichiarazioni dei leader israeliani nei giorni successivi all’attacco di Hamas. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso che il nemico avrebbe pagato un “prezzo enorme” per l’attacco e che le forze armate avrebbero ridotto “in macerie” le zone di Gaza dove agiva Hamas, invitando “gli abitanti di Gaza” ad “andarsene subito perché avremmo agito con la forza ovunque”.
Netanyahu aveva invitato i suoi cittadini a ricordare “quello che Amalek vi ha fatto”, una citazione interpretata da molti come un riferimento a un passo della Bibbia che esorta gli israeliti a “uccidere uomini e donne, bambini e neonati” del loro antico nemico, il popolo amalecita. Funzionari governativi e militari hanno affermato di combattere “animali umani” e, in seguito, hanno invocato una “distruzione totale”. Nissim Vaturi, vicepresidente del parlamento, ha dichiarato su X che il compito di Israele doveva essere quello di “cancellare la Striscia di Gaza dalla faccia della terra”. Le azioni di Israele possono essere interpretate solo come l’attuazione dell’intenzione dichiarata di rendere la Striscia di Gaza inabitabile per la popolazione palestinese. Credo che l’obiettivo fosse – ed è ancora – costringere la popolazione ad abbandonare completamente la Striscia o, considerando che non ha un posto dove andare, di debilitare l’enclave attraverso bombardamenti e gravi privazioni di viveri, acqua potabile, servizi igienici e assistenza medica, in modo da rendere impossibile ai palestinesi di Gaza mantenere o ricostituire la loro esistenza come gruppo.
La mia conclusione inevitabile è che Israele sta commettendo un genocidio contro il popolo palestinese. Sono cresciuto in una famiglia sionista, ho vissuto la prima metà della mia vita in Israele, ho prestato servizio nell’esercito israeliano come soldato e ufficiale e ho trascorso gran parte della mia carriera studiando e scrivendo sui crimini di guerra e sull’Olocausto, quindi è stata per me una conclusione dolorosa da raggiungere, a cui ho resistito il più a lungo possibile. Ma ho tenuto corsi sul genocidio per un quarto di secolo. So riconoscere un genocidio quando lo vedo.
Questa non è solo la mia conclusione. Un numero crescente di esperti in studi sul genocidio e diritto internazionale ritiene che le azioni di Israele a Gaza si possano definire solo come genocidio. Lo sostengono Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Cisgiordania e Gaza, e Amnesty international. Il Sudafrica ha presentato una denuncia per genocidio contro Israele alla Corte internazionale di giustizia.
Il continuo rifiuto di questa definizione da parte di stati, organizzazioni internazionali, giuristi e accademici causerà un danno incalcolabile non solo alla popolazione di Gaza e di Israele, ma anche al sistema di diritto internazionale costruito sulla scia degli orrori dell’Olocausto, concepito per impedire che queste atrocità si ripetano. È una minaccia alle fondamenta stesse dell’ordine morale su cui tutti facciamo affidamento.
Il crimine di genocidio è stato definito nel 1948 dalle Nazioni Unite come “l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”. Nel determinare cosa costituisce un genocidio, quindi, dobbiamo sia individuare l’intenzione sia mostrare che viene messa in atto. Nel caso di Israele, questa intenzione è stata espressa pubblicamente da numerosi leader e funzionari pubblici. Ma l’intenzione può anche essere dedotta dal metodo delle operazioni sul campo, e questo metodo è diventato chiaro nel maggio 2024 – e poi sempre dei più – con la distruzione sistematica della Striscia di Gaza per mano delle forze armate israeliane.
Le conseguenze di una definizione
La maggior parte degli studiosi di genocidio è cauta nell’applicare questo termine agli eventi contemporanei, proprio a causa della tendenza, fin dal momento in cui il termine fu coniato dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin nel 1944, ad attribuirlo a qualsiasi caso di massacro o disumanità. Alcuni sostengono addirittura che la categorizzazione dovrebbe essere completamente abbandonata, perché spesso serve più a esprimere indignazione che a identificare un crimine particolare.
Tuttavia, come ha riconosciuto Lemkin e come hanno successivamente concordato le Nazioni Unite, è fondamentale poter distinguere il tentativo di distruggere un particolare gruppo di persone da altri crimini previsti dal diritto internazionale, come i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. Questo perché, mentre altri crimini comportano l’uccisione indiscriminata o deliberata di civili in quanto individui, il genocidio denota l’uccisione di persone in quanto membri di un gruppo, con l’obiettivo di distruggere irreparabilmente il gruppo stesso in modo che non possa mai ricostituirsi come entità politica, sociale o culturale. E, come ha segnalato la comunità internazionale adottando la convenzione, spetta a tutti gli stati firmatari impedire questi tentativi, fare tutto il possibile per fermarli mentre sono in corso e punire successivamente coloro che hanno commesso questo crimine dei crimini, anche se è stato commesso all’interno dei confini di uno stato sovrano.
La designazione ha importanti implicazioni politiche, giuridiche e morali. Le nazioni, i politici e il personale militare sospettati, incriminati o riconosciuti colpevoli di genocidio sono considerati al di fuori della comunità umana e possono compromettere o perdere il diritto di rimanere membri della comunità internazionale. Una sentenza della Corte internazionale di giustizia che dichiara che un determinato stato è coinvolto in un genocidio, soprattutto se applicata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, può portare a severe sanzioni.
I politici o i generali accusati o riconosciuti colpevoli di genocidio o di altre violazioni del diritto internazionale umanitario dalla Corte penale internazionale possono essere arrestati al di fuori del loro paese. E una società che tollera e si rende complice del genocidio, indipendentemente dalla posizione dei singoli cittadini, porterà questo marchio di Caino a lungo dopo che le fiamme dell’odio e della violenza si saranno spente.
Israele ha negato tutte le accuse di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Le forze armate israeliane sostengono di indagare sulle segnalazioni di crimini, anche se raramente hanno reso pubblici i risultati delle indagini e, quando sono state riconosciute violazioni della disciplina o del protocollo, hanno di solito inflitto solo lievi reprimende al proprio personale. I leader militari e politici israeliani descrivono ripetutamente le forze armate israeliane come un’organizzazione che agisce nel rispetto della legge, affermano di aver avvertito la popolazione civile di evacuare i luoghi che stavano per essere attaccati e accusano Hamas di usare i civili come scudi umani.
In realtà, la distruzione sistematica a Gaza non solo delle abitazioni ma anche di altre infrastrutture – edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti del patrimonio culturale, impianti per il trattamento delle acque, aree agricole e parchi – riflette una politica volta a rendere altamente improbabile la rinascita della vita palestinese nel territorio.
Secondo una recente indagine di Haaretz, sono stati distrutti o danneggiati circa 174mila edifici, pari al 70 per cento di tutte le strutture della Striscia. Finora, secondo le autorità sanitarie di Gaza, sono state uccise più di 58mila persone, tra cui oltre 17mila bambini, che costituiscono quasi un terzo del totale delle vittime. Più di 870 di questi bambini avevano meno di un anno.
Più di duemila famiglie sono state cancellate. Inoltre, 5.600 famiglie contano ora un solo sopravvissuto. Si ritiene che almeno 10mila persone siano ancora sepolte sotto le macerie delle loro case. Più di 138mila persone sono rimaste ferite e mutilate.
Gaza ha ora il triste primato di avere il più alto numero di bambini amputati pro capite al mondo. Un’intera generazione di bambini sottoposti a continui attacchi militari, alla perdita dei genitori e alla malnutrizione cronica subirà gravi ripercussioni fisiche e mentali per il resto della propria vita. Altre migliaia di persone affette da malattie croniche hanno avuto scarso accesso alle cure ospedaliere.
Distruzione e pulizia etnica
L’orrore di ciò che sta accadendo a Gaza è ancora descritto dalla maggior parte degli osservatori come una guerra. Ma questo è un termine improprio. Nell’ultimo anno, le forze armate israeliane non hanno combattuto contro un corpo militare organizzato. La struttura di Hamas che ha pianificato e portato a termine gli attacchi del 7 ottobre è stata distrutta, anche se il gruppo indebolito continua a combattere le forze israeliane e mantiene il controllo sulla popolazione nelle zone non controllate dall’esercito israeliano.
Oggi le forze armate israeliane sono impegnate principalmente in un’operazione di demolizione e pulizia etnica. È così che l’ex capo di gabinetto e ministro della difesa di Netanyahu, il falco Moshe Yaalon, ha descritto a novembre alla tv Israel’s Democrat e in articoli e interviste successivi il tentativo di ripulire il nord di Gaza dalla sua popolazione.
Il 19 gennaio, sotto la pressione di Donald Trump, a un giorno dal suo ritorno alla presidenza, è entrato in vigore un cessate il fuoco che ha facilitato lo scambio di ostaggi a Gaza con prigionieri palestinesi in Israele. Ma dopo la violazione del cessate il fuoco da parte di Israele il 18 marzo, l’esercito israeliano ha messo in atto un piano ben pubblicizzato per concentrare l’intera popolazione di Gaza in un quarto del territorio in tre zone: la città di Gaza, i campi profughi centrali e la costa di Mawasi, all’estremità sudoccidentale della Striscia.
Usando un gran numero di bulldozer ed enormi bombe aeree fornite dagli Stati Uniti, l’esercito sembra voler demolire ogni struttura rimasta e stabilire il controllo sugli altri tre quarti del territorio.
Ciò è facilitato anche da un piano che prevede la fornitura intermittente di aiuti limitati in alcuni punti di distribuzione sorvegliati dall’esercito israeliano, attirando la popolazione verso sud. Molti abitanti di Gaza vengono uccisi nel disperato tentativo di procurarsi del cibo e la crisi alimentare si aggrava. Il 7 luglio, il ministro della difesa Israel Katz ha dichiarato che l’esercito israeliano avrebbe costruito una “città umanitaria” sulle rovine di Rafah per ospitare inizialmente 600mila palestinesi della zona di Mawasi, a cui sarebbero stati portati aiuti umanitari da organizzazioni internazionali e che non avrebbero potuto lasciare l’area.
Alcuni potrebbero descrivere questa campagna come pulizia etnica, non genocidio. Ma c’è un legame tra i crimini: quando un gruppo etnico non ha dove andare ed è costantemente spostato da una cosiddetta zona sicura all’altra, bombardato senza tregua e affamato, la pulizia etnica può trasformarsi in genocidio.
È stato il caso di diversi genocidi ben noti del ventesimo secolo, come quello degli Herero e dei Nama nell’Africa sudoccidentale tedesca, oggi Namibia, iniziato nel 1904; quello degli armeni durante la prima guerra mondiale; e, naturalmente, anche l’Olocausto, cominciato con il tentativo tedesco di espellere gli ebrei e finito con il loro sterminio.
A oggi, solo pochi studiosi dell’Olocausto– e nessuna istituzione dedicata alla ricerca e alla commemorazione – hanno lanciato l’allarme che Israele potrebbe essere accusato di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica o genocidio. Questo silenzio ha reso ridicolo lo slogan “Mai più”, trasformandone il significato da affermazione di resistenza alla disumanità ovunque essa sia perpetrata a scusa, addirittura a carta bianca per distruggere gli altri invocando il proprio passato di vittima.
Questo è un altro dei tanti danni incalcolabili dell’attuale catastrofe. Mentre Israele sta letteralmente cercando di cancellare l’esistenza palestinese a Gaza e sta esercitando una violenza crescente contro i palestinesi in Cisgiordania, il credito morale e storico di cui lo stato ebraico ha goduto fino a ora si sta esaurendo.
Israele, creato sulla scia dell’Olocausto come risposta al genocidio nazista degli ebrei, ha sempre insistito sul fatto che qualsiasi minaccia alla sua sicurezza deve essere vista come potenzialmente in grado di portare a un altro Auschwitz. Questo fornisce a Israele la licenza di dipingere coloro che considera suoi nemici come nazisti – un termine usato ripetutamente dai mezzi di informazione israeliani per descrivere Hamas e, per estensione, tutti gli abitanti di Gaza, sulla base dell’affermazione popolare che nessuno di loro è “innocente”, nemmeno i bambini, che da grandi diventeranno militanti.
Non si tratta di un fenomeno nuovo. Già durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982, il primo ministro Menachem Begin paragonò Yasser Arafat, allora rifugiato a Beirut, ad Adolf Hitler nel suo bunker di Berlino. Questa volta l’analogia viene utilizzata in relazione a una politica volta a sradicare e rimuovere l’intera popolazione di Gaza.
Le scene di orrore che si ripetono ogni giorno a Gaza, dalle quali l’opinione pubblica israeliana è protetta dall’autocensura dei propri mezzi di informazione, smascherano la menzogna della propaganda israeliana secondo cui questa sarebbe una guerra difensiva contro un nemico simile ai nazisti. Fa rabbrividire sentire i portavoce israeliani ripetere spudoratamente lo slogan vuoto secondo cui le forze armate israeliane sarebbero “l’esercito più morale del mondo”.
Alcuni paesi europei, come Francia, Gran Bretagna e Germania, così come il Canada, hanno protestato debolmente contro le azioni israeliane, soprattutto da quando Israele ha violato il cessate il fuoco a marzo. Ma non hanno né sospeso le forniture di armi né intrapreso molte misure politiche o economiche concrete e significative che potrebbero dissuadere il governo di Netanyahu.
Per un certo periodo, il governo degli Stati Uniti sembrava aver perso interesse per Gaza, con il presidente Trump che inizialmente aveva annunciato a febbraio che gli Stati Uniti avrebbero preso il controllo di Gaza, promettendo di trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”, per poi lasciare che Israele continuasse la distruzione della Striscia e rivolgere la sua attenzione all’Iran. Al momento, si può solo sperare che Trump faccia nuovamente pressione sul riluttante Netanyahu affinché raggiunga almeno un nuovo cessate il fuoco e ponga fine alle uccisioni incessanti.
Gli studiosi divisi e la memoria
Come sarà influenzato il futuro di Israele dall’inevitabile demolizione della sua incontestabile moralità, derivata dalla sua nascita dalle ceneri dell’Olocausto?
La leadership politica israeliana e i suoi cittadini dovranno decidere. Sembra esserci poca pressione interna per il cambiamento di paradigma urgentemente necessario: il riconoscimento che non c’è altra soluzione a questo conflitto se non un accordo israelo-palestinese per condividere la terra secondo i parametri concordati dalle due parti, che si tratti di due stati, di uno stato o di una confederazione. Anche una forte pressione esterna da parte degli alleati del paese sembra improbabile. Sono profondamente preoccupato che Israele persista nella sua disastrosa rotta, trasformandosi, forse in modo irreversibile, in uno stato autoritario di apartheid a tutti gli effetti. Come ci insegna la storia, stati di questo tipo non durano a lungo.
Un’altra domanda sorge spontanea: quali conseguenze avrà l’inversione morale di Israele sulla cultura della commemorazione dell’Olocausto e sulla politica della memoria, dell’istruzione e della ricerca, quando così tanti dei suoi intellettuali e dei suoi leader hanno finora rifiutato di assumersi la responsabilità di denunciare la disumanità e il genocidio ovunque si verifichino?
Coloro che sono impegnati nella cultura mondiale della commemorazione e della memoria costruita attorno all’Olocausto dovranno confrontarsi con una resa dei conti morale. La più ampia comunità di studiosi del genocidio – coloro che si occupano dello studio comparato del genocidio o di uno qualsiasi dei tanti altri genocidi che hanno segnato la storia dell’umanità – si sta ora avvicinando sempre più a un consenso sulla descrizione degli eventi di Gaza come genocidio.
A novembre, a poco più di un anno dall’inizio della guerra, lo studioso israeliano di genocidio Shmuel Lederman si è unito al coro crescente di opinioni secondo cui Israele era impegnato in azioni genocidarie. L’avvocato internazionale canadese William Schabas è giunto alla stessa conclusione lo scorso anno e ha recentemente descritto la campagna militare di Israele a Gaza come “assolutamente” un genocidio.
Altri esperti di genocidio, come Melanie O’Brien, presidente dell’Associazione internazionale degli studiosi del genocidio, e lo specialista britannico Martin Shaw (che ha anche affermato che l’attacco di Hamas era genocida), sono giunti alla stessa conclusione, mentre lo studioso australiano A. Dirk Moses della City University di New York ha descritto questi eventi nel giornale olandese Nrc come un “mix di logica genocida e militare”. Nello stesso articolo, Uğur Ümit Üngör, professore presso l’Istituto Niod per gli studi sulla guerra, l’Olocausto e il genocidio con sede ad Amsterdam, ha affermato che probabilmente ci sono studiosi che ancora non ritengono che si tratti di genocidio, ma “non li conosco”.
La maggior parte degli studiosi dell’Olocausto che conosco non condivide, o almeno non esprime pubblicamente, questa opinione. Con poche eccezioni degne di nota, come l’israeliano Raz Segal, direttore del programma di studi sull’Olocausto e il genocidio alla Stockton University nel New Jersey, e gli storici Amos Goldberg e Daniel Blatman, dell’Università ebraica di Gerusalemme, la maggior parte degli accademici che si occupano della storia del genocidio nazista degli ebrei è rimasta notevolmente in silenzio, mentre alcuni hanno apertamente negato i crimini di Israele a Gaza o hanno accusato i loro colleghi più critici di incitamento all’odio, esagerazioni selvagge, avvelenamento dei pozzi e antisemitismo.
A dicembre lo studioso dell’Olocausto Norman J.W. Goda ha affermato che “accuse di genocidio come queste sono state a lungo utilizzate come foglia di fico per contestare più in generale la legittimità di Israele”, esprimendo la sua preoccupazione che “abbiano sminuito la gravità della parola genocidio stessa”. Questa “calunnia di genocidio”, come l’ha definita il dottor Goda in un saggio, “utilizza una serie di tropi antisemiti”, tra cui “l’abbinamento dell’accusa di genocidio con l’uccisione deliberata di bambini, le cui immagini sono onnipresenti sulle piattaforme di ong, social media e altri canali che accusano Israele di genocidio”.
In altre parole, mostrare immagini di bambini palestinesi fatti a pezzi da bombe di fabbricazione statunitense lanciate da piloti israeliani è, secondo questa visione, un atto antisemita.
Più recentemente, il dottor Goda e Jeffrey Herf, stimato storico europeo, hanno scritto sul Washington Post che “l’accusa di genocidio lanciata contro Israele attinge a profondi sentimenti di paura e odio” presenti nelle “interpretazioni radicali sia del cristianesimo sia dell’islam”. Essa “ha spostato il disprezzo dagli ebrei come gruppo religioso/etnico allo stato di Israele, che descrive come intrinsecamente malvagio”.
Quali sono le ramificazioni di questa frattura tra studiosi di genocidio e storici dell’Olocausto? Non si tratta solo di una disputa accademica. La cultura della memoria creata negli ultimi decenni sull’Olocausto va ben oltre il genocidio degli ebrei. Ha assunto un ruolo cruciale nella politica, nell’istruzione e nell’identità.
Un passo importante
I musei dedicati all’Olocausto sono serviti da modello per la rappresentazione di altri genocidi in tutto il mondo. L’insistenza sul fatto che le lezioni dell’Olocausto richiedono la promozione della tolleranza, della diversità, dell’antirazzismo e del sostegno ai migranti e ai rifugiati, per non parlare dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, è radicata nella comprensione delle implicazioni universali di questo crimine nel cuore della civiltà occidentale all’apice della modernità.
Screditare gli studiosi di genocidio che denunciano il genocidio di Israele a Gaza come antisemiti minaccia di erodere le fondamenta degli studi sul genocidio: la necessità continua di definire, prevenire, punire e ricostruire la storia del genocidio. Suggerire che questo impegno sia invece motivato da interessi e sentimenti malevoli, cioè guidato proprio dall’odio e dal pregiudizio che sono stati alla base dell’Olocausto, non solo è moralmente scandaloso, ma apre anche la strada a una politica di negazionismo e impunità.
Allo stesso modo quando insistono nell’ignorare o negare le azioni genocidarie di Israele a Gaza le persone che hanno dedicato la loro carriera all’insegnamento e alla commemorazione dell’Olocausto minacciano di compromettere tutto ciò che gli studi e la memoria hanno rappresentato negli ultimi decenni. Vale a dire la dignità di ogni essere umano, il rispetto dello stato di diritto e l’urgente necessità di non lasciare mai che la disumanità conquisti i cuori delle persone e guidi le azioni delle nazioni in nome della sicurezza, dell’interesse nazionale e della pura vendetta.
Temo che, all’indomani del genocidio di Gaza, non sarà più possibile continuare a insegnare e a fare ricerca sull’Olocausto come abbiamo fatto finora. Poiché l’Olocausto è stato invocato senza sosta dallo stato di Israele e dai suoi difensori per coprire i crimini delle forze armate israeliane, lo studio e la memoria dello sterminio degli ebrei compiuto dai nazisti potrebbero perdere la loro pretesa di occuparsi di giustizia universale e ritirarsi nello stesso ghetto etnico in cui hanno avuto inizio alla fine della seconda guerra mondiale: come preoccupazione marginale dei resti di un popolo emarginato, un evento etnicamente specifico, prima di riuscire, decenni dopo, a trovare il loro giusto posto come lezione e monito per l’umanità intera.
Altrettanto preoccupante è la prospettiva che lo studio del genocidio nel suo complesso non sopravviva alle accuse di antisemitismo, lasciandoci senza quella comunità fondamentale di studiosi e giuristi internazionali che si schiera in prima linea in un momento in cui l’ascesa dell’intolleranza, dell’odio razziale, del populismo e dell’autoritarismo minaccia i valori che erano al centro degli sforzi accademici, culturali e politici del ventesimo secolo.
Forse l’unica luce alla fine di questo tunnel molto buio è la possibilità che una nuova generazione di israeliani affronti il proprio futuro senza rifugiarsi nell’ombra dell’Olocausto, anche se dovrà sopportare la macchia del genocidio commesso a Gaza in suo nome. Israele dovrà imparare a vivere senza ricorrere all’Olocausto come giustificazione per i propri comportamenti disumani. Nonostante tutte le terribili sofferenze a cui stiamo assistendo, questo è un passo importante che, nel lungo periodo, potrebbe aiutare Israele ad affrontare il futuro in modo più sano, razionale, meno timoroso e violento.
Questo non servirà a compensare l’incalcolabile numero di morti e sofferenze dei palestinesi. Ma un Israele liberato dal peso schiacciante dell’Olocausto potrà finalmente accettare l’inevitabile necessità che i suoi sette milioni di cittadini ebrei condividano la terra con i sette milioni di palestinesi che vivono in Israele, a Gaza e in Cisgiordania in pace, uguaglianza e dignità. Questo sarà l’unico modo giusto di fare i conti con quello che è successo.
(Traduzione di Davide Lerner)
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