Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2017 nel numero 1222 di Internazionale.
Alla fine di giugno del 2017 Mark Zuckerberg ha annunciato che Facebook era arrivato a due miliardi di utenti mensili attivi. In parole povere, a maggio due miliardi di persone in tutto il mondo avevano usato Facebook. È difficile rendersi conto dell’enormità di questo risultato. Tenete presente che thefacebook, come si chiamava all’inizio, era stato lanciato nel 2004 solo per gli studenti di Harvard. Non ci sono imprese umane, nuove tecnologie, nuovi servizi pubblici o privati che siano stati universalmente adottati così in fretta. La velocità con cui si è diffuso Facebook supera di gran lunga quella di internet, per non parlare di tecnologie antiche come la televisione, il cinema o la radio.
Un’altra cosa incredibile è che più Facebook cresce, più i suoi utenti ne dipendono. Al contrario di quanto ci si aspetterebbe, la maggiore diffusione non corrisponde a un livello di coinvolgimento più basso. Di più vuol dire meglio, almeno dal punto di vista di Facebook. Nel lontano ottobre del 2012, quando Facebook ha superato il miliardo di iscritti, il 55 per cento degli utenti lo usava tutti i giorni. Oggi che gli iscritti sono due miliardi, la percentuale è salita al 66 per cento. La base di utenti cresce del 18 per cento all’anno, un risultato impensabile per un’azienda già così grande.
Il principale concorrente di Facebook in termini di utenti registrati è YouTube, di proprietà dell’arcinemica Alphabet (l’azienda che prima si chiamava Google), al secondo posto con 1,5 miliardi di utenti mensili. Al terzo, quarto e sesto posto ci sono WhatsApp, Messenger e Instagram, rispettivamente con 1,2 miliardi, 1,2 miliardi, e 700 milioni di utenti (al quinto c’è la cinese WeChat, con 889 milioni).
Questi tre servizi, app o come li si voglia chiamare, hanno una cosa in comune: sono tutti di Facebook. Non a caso l’azienda fondata da Zuckerberg è la quinta società al mondo per valore in borsa: 445 miliardi di dollari.
All’annuncio del nuovo record di Facebook se n’è aggiunto un altro che forse è importante. Zuckerberg ha detto che l’azienda cambierà il suo mission statement, che è una di quelle dichiarazioni d’intenti ipocrite dietro cui si nascondono sempre le imprese statunitensi. La vecchia mission di Facebook era “rendere il mondo più aperto e connesso”. Leggendola, chi non usa Facebook potrebbe chiedersi: perché? Essere connessi viene presentato come un fine in sé, come una cosa intrinsecamente e automaticamente positiva. Ma è davvero così?
Flaubert guardava con scetticismo ai treni perché pensava, nella parafrasi di Julian Barnes, che “la ferrovia avrebbe semplicemente permesso a più gente di spostarsi, incontrarsi ed essere stupida”. Non c’è bisogno di essere misantropi come Flaubert per pensare la stessa cosa di Facebook. Per esempio, è opinione diffusa che Facebook abbia avuto un ruolo importante, forse addirittura cruciale, nell’elezione di Donald Trump. Come questo abbia giovato all’umanità non è chiaro. Probabilmente se l’è chiesto anche Zuckerberg, e infatti la nuova dichiarazione d’intenti specifica lo scopo di tutta questa interconnessione: “Dare alle persone il potere di costruire comunità e unire sempre di più il mondo”.
Cose sporche
Vediamo un po’. Il mission statement di Alphabet, “organizzare l’informazione mondiale e renderla accessibile e utile a tutti”, era accompagnato dalla massima “Non essere cattivi”, che è stata fonte di innumerevoli prese in giro. Steve Jobs l’aveva definita “una stronzata”. Sicuramente lo è, ma non è solo una stronzata.
Il settore assicurativo, per esempio, si fonda sulla premessa che gli assicuratori facciano pagare ai clienti più di quanto vale la loro assicurazione: è giusto così, altrimenti l’affare non sta in piedi. Non è giusto, invece, che le compagnie assicurative ricorrano a qualsiasi mezzo per evitare (per quanto possibile) di pagare quando si verifica l’evento coperto dalla polizza. Provate a chiedere a chi ha avuto la casa danneggiata da una calamità. Ha senso dire di “non essere cattivi”, perché molte aziende lo sono.
È un problema soprattutto nel mondo di internet. Le aziende digitali operano in un settore che i clienti e le autorità capiscono poco o non capiscono affatto. Tutto quello che fanno, se vale qualcosa, è nuovo per definizione. In un mondo in cui si intrecciano novità, ignoranza e mancanza di regole, vale sicuramente la pena di ricordare ai dipendenti di non essere cattivi. Perché se l’azienda ha successo e cresce, le possibilità di essere cattivi si moltiplicano.
Google e Facebook hanno seguito questa linea fin dall’inizio, anche se con stili diversi. Un mio amico imprenditore ha avuto a che fare con entrambe. “Quelli di YouTube sanno che sul loro sito passano un sacco di cose sporche e cercano di fare qualcosa per rimediare”, mi dice. Gli chiedo cosa intenda con “cose sporche”. “Terrorismo, estremismo, contenuti rubati, violazioni dei diritti d’autore: questo genere di cose. Google, per quella che è la mia esperienza, sa che ci sono ambiguità riguardo a certe cose che fa, e almeno prova a rifletterci su. A quelli di Facebook non gliene importa niente. Quando sei in una stanza con loro lo capisci subito. Sono”, si prende qualche secondo per cercare la parola giusta, “schifosi”.
Le aziende di internet operano in un settore che i clienti capiscono poco o per niente
Forse suona un po’ eccessivo. Il fatto è che i problemi etici e le ambiguità accompagnano Facebook dalla sua creazione. La cosa è nota, perché a quel tempo il suo fondatore scriveva tutto quello che faceva, in diretta sul suo blog. Lo racconta The social network, il film di David Fincher sceneggiato da Aaron Sorkin sulla storia di Facebook. Al suo primo anno ad Harvard, Zuckerberg viene respinto da una ragazza. Per reagire alla delusione crea un sito web dove pubblica foto di studenti una accanto all’altra in modo che gli utenti possano votare: qual è il più bello o la più bella? Nel film si vedono solo ragazze, in realtà gli studenti erano di entrambi i sessi.
Come spiega Tim Wu in un saggio vivace e originale dal titolo The attention merchants, “Facebook” nel senso usato da Zuckerberg “si riferisce agli album fotografici realizzati dalle università statunitensi per favorire la socializzazione, un po’ come gli adesivi con la scritta ‘Ciao, mi chiamo…’ alle conferenze. Pagine piene di ritratti con sotto i nomi degli studenti”. Harvard stava già lavorando a una versione digitale degli album dei vari dormitori. Il principale social network, Friendster, contava tre milioni di utenti. L’idea di mettere insieme le due cose non era completamente nuova ma, per citare Zuckerberg, “secondo me è ridicolo che l’università ci metta due anni per realizzarlo. Io posso farlo meglio, e in una settimana”.
Wu sostiene che attirare e rivendere l’attenzione è stato il modello fondamentale di molte imprese, dai manifesti nella Parigi di fine ottocento all’invenzione dei giornali di massa (che guadagnavano grazie alle inserzioni pubblicitarie, non sulle tirature), fino alla pubblicità e alla tv commerciale dei giorni nostri. Facebook fa parte di questa lunga tradizione, e probabilmente ne rappresenta l’esempio più puro. Non ci sono molti concetti nuovi alla base della sua creazione. Come osserva Wu, Facebook ha “un rapporto tra invenzione e successo straordinariamente basso”. Più che l’originalità, il merito di Zuckerberg è stato portare avanti il suo progetto e capire quali erano i punti fondamentali.
La chiave per tutte le start-up di internet è eseguire i piani e adattarsi alle situazioni che cambiano. Zuckerberg ha portato l’azienda dove è oggi perché è stato bravo ad assumere ingegneri capaci e a capire in che direzione stava andando il settore. Instagram e WhatsApp, le due grandi società sorelle finite sotto la gigantesca ala di Facebook, sono state acquisite rispettivamente per un miliardo e 19 miliardi di dollari in un momento in cui non generavano ricavi. Nessuna banca, nessun analista finanziario, nessun esperto avrebbe saputo dire a Zuckerberg quanto valevano realmente. Nessuno lo sapeva meglio di lui. Zuckerberg è riuscito a intuire come si stava muovendo il mercato e a influenzarne la direzione. Questo talento oggi vale varie centinaia di miliardi di dollari.
Come scrive l’ex dirigente di Facebook Antonio García Martínez in Chaos monkeys, un resoconto caustico e divertente dei suoi anni in azienda, la brillante interpretazione di Jesse Eisenberg in The social network è fuorviante. Lo Zuckerberg del film è un personaggio molto credibile, un genio informatico che rasenta l’autismo e che ha capacità relazionali minime, se non inesistenti. Ma Zuckerberg non è così. A Harvard ha studiato per prendere una doppia specializzazione, in informatica e (come molti dimenticano) in psicologia. Chi tende all’autismo ha una percezione limitata di come funziona la testa degli altri; non ha una “teoria della mente”, come dicono gli esperti. Non è il caso di Zuckerberg, che invece sa benissimo come funziona la testa delle persone e ha una particolare consapevolezza delle dinamiche sociali legate alla popolarità e allo status sociale.
Quando è stato lanciato, Facebook era riservato a chi aveva un indirizzo email di Harvard: l’accesso al sito doveva essere visto come una cosa esclusiva. Poi è stato esteso ad altri campus prestigiosi degli Stati Uniti. Quando è stato lanciato nel Regno Unito, inizialmente era aperto solo agli studenti di Oxford, Cambridge e della London school of economics. Il principio era che alla gente piaceva vedere quello che facevano gli altri, osservare le loro reti sociali, fare confronti, vantarsi, mettersi in mostra, dare libero sfogo a ogni momento di malinconia e di invidia e tenere il naso incollato alla vetrina delle vite degli altri.
Questo aspetto ha attirato l’attenzione del primo investitore esterno di Facebook, il miliardario della Silicon valley Peter Thiel. Anche qui, The social network racconta come sono andate le cose: i 500mila dollari investiti da Thiel nel 2004 sono stati fondamentali per il lancio di Facebook. In realtà, però, a colpire Thiel è stato un altro fattore, legato a un filone sotterraneo della storia del pensiero.
Durante i suoi studi a Stanford (è laureato in filosofia) Thiel si era avvicinato alle idee del filosofo franco-statunitense René Girard, autore di un influente saggio intitolato Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (Adelphi 1996). Il pensiero di Girard ruota intorno al concetto di “desiderio mimetico”. L’uomo nasce con il bisogno di nutrirsi e di ripararsi: una volta soddisfatte queste necessità fondamentali, comincia a guardare quello che fanno (e vogliono) gli altri e li imita. Nella sintesi di Thiel, “l’imitazione è alla radice di ogni comportamento”.
Girard era cristiano, e nella sua concezione la natura umana è corrotta dal peccato originale. L’uomo non sa cosa vuole o chi è, non ha valori e convinzioni; ha solo l’istinto di copiare e fare confronti. È l’homo mimeticus: “L’uomo è la creatura che non sa cosa desiderare, e che guarda gli altri per decidere. Desideriamo ciò che desiderano gli altri perché imitiamo i loro desideri”. Guardati intorno, sfigato, e confronta.
Thiel, dunque, ha sposato la causa di Zuckerberg con grande entusiasmo perché ha visto in Facebook il primo business intrinsecamente girardiano, fondato sul bisogno profondo di copiare gli altri. “Facebook si è diffuso prima di tutto attraverso il passaparola e si basa sul passaparola, quindi è doppiamente mimetico”, dice Thiel. “I social network si sono rivelati più importanti di quello che pensavamo perché fanno leva sulla nostra natura più autentica”. Ci teniamo a farci vedere come vogliamo che ci vedano gli altri, e Facebook è lo strumento più popolare che l’umanità abbia mai avuto per perseguire questo scopo.
Una vita di confronti
Alla base di tutto questo c’è una concezione molto cupa della natura umana. Se il nostro unico desiderio è guardare gli altri per fare confronti e copiarli – se questa è la verità definitiva e più profonda sulla natura umana e su quello che ci spinge ad agire – allora Facebook non deve preoccuparsi troppo del benessere dell’umanità, perché tutte le cose negative che ci capitano ce le procuriamo da soli.
Nonostante il messaggio edificante del suo mission statement, Facebook è fondato su una premessa essenzialmente misantropica. Forse è per questo che, più di qualsiasi altra azienda delle stesse dimensioni, è stato costantemente attraversato da una vena di malignità. Le manifestazioni più evidenti e basse di questo fenomeno sono le dirette in streaming di stupri, suicidi, omicidi ed esecuzioni di poliziotti. Questo, però, è un aspetto per cui non mi sembra che si possa dare la colpa a Facebook. La gente posta queste cose orribili su Facebook perché è il sito che ha il pubblico più vasto: se Snapchat o Periscope fossero più grandi, le pubblicherebbero lì.
In molti altri casi, invece, il sito è tutt’altro che innocente. Ultimamente, per esempio, l’azienda è stata criticata per il suo ruolo nell’elezione di Donald Trump. Qui vanno considerati due aspetti. Uno è implicito nella natura di Facebook, che ha la tendenza intrinseca a frammentare gli utenti in gruppi di persone che la pensano allo stesso modo. L’obiettivo di “connettere” le persone, in pratica, significa metterle in contatto con chi è d’accordo con loro. È impossibile dimostrare fino a che punto queste bolle in cui ci chiudiamo siano pericolose per la società, ma è abbastanza chiaro che hanno un impatto molto forte su un tessuto politico sempre più frammentato. La nostra concezione di “noi” si sta restringendo.
Questa frammentazione ha creato le condizioni per la seconda grande colpa di Facebook, legata ai disastri politici che hanno colpito gli Stati Uniti e il Regno Unito nel 2016. Per descrivere i cambiamenti in corso si usano due neologismi: fake news, cioè le bufale, e post-verità. Indicano una realtà resa possibile dal passaggio del dibattito pubblico da un’agorà a bunker ideologici chiusi. All’aria aperta, le fake news possono essere combattute e smascherate; su Facebook, se non si fa parte della comunità a cui vengono raccontate, è praticamente impossibile sapere anche solo che sono state messe in circolazione. Un punto fondamentale in tutto questo è che Facebook non ha alcun interesse economico a dire la verità. Uno dei comandamenti dell’era di internet è “se una merce è gratis, allora la merce sei tu”, e nessuna azienda lo incarna meglio di Facebook.
I clienti di Facebook non sono gli utenti, ma gli inserzionisti pubblicitari che usano il social network e sfruttano la sua capacità di indirizzare gli annunci a un pubblico ricettivo. Perché a Facebook dovrebbe importare se le notizie che fa circolare sono false? Quello che gli interessa è far arrivare il messaggio alle persone giuste, non il contenuto. Ecco, probabilmente, uno dei motivi del cambio di mission aziendale. Se l’unico interesse è mettere in contatto le persone, perché preoccuparsi delle bugie? Le bugie possono perfino essere meglio della verità, perché aiutano a individuare più velocemente chi la pensa allo stesso modo. La nuova ambizione dichiarata, quella di “costruire comunità”, serve solo a dare l’impressione che Facebook s’interessi un po’ di più alle conseguenze dei contatti che favorisce.
Come la stessa azienda ha ammesso, le fake news non sono state l’unico strumento usato per influenzare le elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Il 6 gennaio 2017 il direttore dei servizi segreti americani ha pubblicato un rapporto in cui si sostiene che la Russia ha orchestrato una campagna di disinformazione su internet per danneggiare Hillary Clinton e aiutare Trump. Alla fine di aprile Facebook ha finalmente confermato questa verità, a quel punto abbastanza ovvia, in un interessante documento pubblicato dalla sua divisione di sicurezza interna. Fake news, scrive Facebook, è un’espressione generica e inutile, perché in realtà la disinformazione si diffonde in molti modi:
Operazioni d’informazione (o influenza): azioni intraprese dai governi o da soggetti organizzati esterni agli stati per indirizzare l’opinione pubblica su questioni di politica nazionale o estera.
Fake news: articoli e notizie che si spacciano per fattuali ma che espongono gli avvenimenti in modo volutamente distorto allo scopo di eccitare gli animi, attirare visualizzazioni o ingannare.
Amplificatori artificiali: attività coordinate da account non autentici allo scopo di manipolare la discussione politica (per esempio, scoraggiando specifici soggetti e parti dal partecipare alla discussione, o amplificando il sensazionalismo di altri).
Disinformazione: informazioni e contenuti inesatti o manipolati che vengono diffusi intenzionalmente. Le fake news sono un metodo, ma ce ne sono di più sottili come le “attività sotto falsa bandiera”, le citazioni o gli articoli inesatti passati a intermediari incolpevoli, o le informazioni di parte o fuorvianti gonfiate in modo consapevole.
L’azienda promette che affronterà questo problema (o insieme di problemi) con la stessa serietà con cui si occupa del malware, dell’hackeraggio degli account e dello spam. Vedremo. Quelle che per qualcuno sono fake news per qualcun altro sono la voce della verità, e Facebook fa di tutto per declinare ogni responsabilità per i contenuti pubblicati sul sito, a parte quelli a sfondo sessuale, sui quali l’azienda è rigidissima. Non si può far vedere neanche un capezzolo. È uno strano ordine di priorità che ha un senso solo nel contesto statunitense, dove il minimo sentore di sessualità esplicita darebbe immediatamente al social network la fama di luogo poco raccomandabile. Le foto di donne che allattano al seno sono vietate e vengono subito eliminate. Bugie e propaganda, invece, sono ammesse.
Per capire il perché, bisogna pensare a cosa vogliono gli inserzionisti: non vogliono comparire accanto a immagini di nudo che rischiano di danneggiare il loro marchio, ma non hanno problemi a comparire accanto a notizie false perché le notizie false possono aiutarli a trovare potenziali acquirenti. In Move fast and break things, un manifesto polemico contro i “predatori dell’era digitale”, Jonathan Taplin cita un’analisi di Buzzfeed: “Negli ultimi tre mesi della campagna presidenziale statunitense, le bufale elettorali più lette su Facebook hanno generato più partecipazione e coinvolgimento dei principali articoli di grandi testate giornalistiche come The New York Times, The Washington Post, Huffington Post, Nbc News e altri”. Non sembra un problema che Facebook avrà particolare fretta di risolvere.
Abbondano contenuti falsi o rubati, ma a Facebook non importa
Del resto su Facebook abbondano i contenuti falsi e anche quelli rubati, ma all’azienda non importa, perché non è nel suo interesse occuparsene. Gran parte dei video pubblicati sul sito sono rubati alle persone che li hanno creati. Un video illuminante postato su YouTube da Kurzgesagt, un progetto tedesco che produce contenuti informativi di alta qualità, osserva che 725 dei mille video più visti su Facebook nel 2015 erano rubati.
Ecco un altro punto su cui gli interessi di Facebook contrastano con quelli della collettività. Noi potremmo essere interessati a sostenere il lavoro creativo in forme diverse e su molteplici piattaforme, Facebook no. Ha due priorità, come spiega Martínez in Chaos monkeys: la crescita e la monetizzazione. Da dove vengano i contenuti semplicemente non gli interessa. Solo ora sta cominciando a preoccuparsi di come viene percepita l’origine fraudolenta dei contenuti, perché se questa percezione diventa generalizzata può ripercuotersi negativamente sulla fiducia e, di conseguenza, sul tempo che la gente concede al social network.
Manodopera gratis
Lo stesso Zuckerberg ha affrontato il tema in un post su Facebook in cui ha parlato della questione “Facebook e le elezioni”. Dopo una buona dose di stronzate (“Il nostro obiettivo è dare una voce a tutte le persone. Crediamo profondamente nelle persone”) arriva al punto: “Considerando tutti i contenuti presenti su Facebook, più del 99 per cento di quello che la gente vede è autentico. Solo una piccola parte sono notizie false”. Diversi utenti hanno osservato che sulla loro bacheca il post di Zuckerberg sull’autenticità è comparso vicino a fake news di vario tipo. Una era presentata come un articolo del canale tv sportivo Espn e quando ci si cliccava sopra si veniva reindirizzati sulla pubblicità di un integratore alimentare. Meno male che c’è il capo di Facebook che garantisce sull’assenza di frodi sul social network!
Evan Williams, cofondatore di Twitter e fondatore del sito d’informazione Medium, ha trovato il post di Zuckerberg accanto a un altro falso articolo di Espn e a una notizia falsa, attribuita alla Cnn, che annunciava la rimozione di Trump da parte del congresso. Quando ci si cliccava sopra, si finiva sulla pubblicità di un’azienda che vendeva un corso di dodici settimane per rafforzare i pollici (proprio così: rafforzare i pollici). Adesso, però, almeno sappiamo che Zuck crede nelle persone. L’importante è questo.
Un osservatore neutrale potrebbe domandarsi se la posizione di Facebook verso chi crea contenuti sia sostenibile. Facebook, ovviamente, ha bisogno di contenuti, perché è di questo che vive: contenuti creati da altre persone. Il problema è che l’azienda non si entusiasma all’idea che qualcun altro possa guadagnare qualcosa da questi contenuti. Alla lunga, è un atteggiamento profondamente distruttivo per il settore creativo e dei mezzi d’informazione. L’accesso al pubblico – quei famosi due miliardi di persone – è una cosa bellissima, ma Facebook non ha alcuna fretta di aiutare altri a trarne un profitto. E anche se i fornitori di contenuti “ufficiali” dovessero fallire, non sarebbe un grosso problema: i fornitori alternativi per ora non mancano. Tutti quelli che stanno su Facebook, in un certo senso, lavorano per Facebook e contribuiscono a far crescere il valore dell’azienda.
Nel 2014 il New York Times ha fatto due conti e ha calcolato che ogni giorno l’umanità passava complessivamente 39.757 anni sul social network. Jonathan Taplin osserva che “sono quasi quindici milioni di anni di manodopera gratis all’anno”. E all’epoca Facebook aveva solo 1,2 miliardi di utenti.
Taplin ha un passato nel mondo accademico e nel cinema. E ha cominciato nel mondo della musica, come manager di The Band, assistendo in prima persona alla distruzione dell’industria per mano di internet. Quello che nel 1999 era un mercato da 20 miliardi di dollari quindici anni dopo valeva sette miliardi. Taplin ha visto musicisti che un tempo facevano la bella vita diventare poveri: non perché la gente avesse smesso di ascoltare la loro musica (anzi, le persone che li ascoltano erano aumentate), ma perché tutti ormai si aspettavano che la musica fosse gratis. YouTube è la più grande fonte di musica del mondo: sul sito si ascoltano ogni anno miliardi di brani, eppure nel 2015 i musicisti hanno guadagnato da YouTube e dai suoi concorrenti che vivono di pubblicità meno che dalle vendite dei dischi in vinile. Non dei cd o delle incisioni in generale: dei vinili.
La fine dei giornali
Qualcosa di simile è successo nel mondo del giornalismo. Facebook è sostanzialmente un’azienda che vende pubblicità, ed è indifferente ai contenuti pubblicati sul suo sito se non per la loro capacità d’indirizzare e vendere annunci pubblicitari. Nel cinquecento il banchiere inglese Thomas Gresham disse che la moneta cattiva scaccia quella buona. Qui si è creata una specie di legge di Gresham in cui le notizie false, che generano più clic e si possono produrre gratis, scacciano le notizie vere, che spesso dicono cose che la gente non vuole sentire e che non si producono gratis.
In più, Facebook usa una serie di trucchi per aumentare il traffico e i ricavi generati attraverso gli annunci pubblicitari a spese dei mezzi di comunicazione di cui ospita i contenuti. Quando Facebook invia contenuti all’utente, non li sceglie in base agli interessi dell’utente, ma privilegia quelli che possono massimizzare i ricavi pubblicitari. Nel settembre 2016 l’ex direttore del Guardian Alan Rusbridger ha detto durante un convegno organizzato dal Financial Times che Facebook “si è succhiato 27 milioni di dollari” di ricavi pubblicitari previsti dal giornale per quell’anno. “I soldi se li prendono tutti loro perché usano algoritmi che noi non capiamo, che fanno da filtro tra quello che scriviamo e i nostri lettori”.
Questo ci porta al nocciolo della questione: cos’è Facebook e cosa fa. Nonostante tutte le chiacchiere sul mettere in contatto la gente, costruire comunità e credere nelle persone, Facebook è un’azienda pubblicitaria. Martínez spiega con grande chiarezza come l’azienda è diventata quella che è e come funziona la pubblicità su Facebook.
All’inizio Zuckerberg era molto più interessato alla crescita che alla monetizzazione. Le cose sono cambiate con il collocamento in borsa, il radioso giorno in cui le azioni di Facebook sono state messe in vendita al pubblico per la prima volta. L’ingresso in borsa rappresenta una svolta per tutte le startup: nel caso di molti lavoratori del settore tecnologico la speranza e le aspettative legate al collocamento sono la prima cosa che li fa avvicinare all’azienda o il motivo che li fa restare incollati alle loro postazioni. È il momento in cui le finanze virtuali di un’impresa nata da poco si trasformano nella liquidità concreta di una società quotata in borsa.
Zuckerberg non è particolarmente interessato ai soldi. Però gli piace vincere
Martínez ha un punto di vista affascinante, e molto amaro, sul tema delle differenze di classe e di status nella Silicon valley, in particolare sulla questione mai discussa apertamente dell’enorme divario tra i primi impiegati di un’azienda tecnologica, che spesso diventano ricchissimi, e gli schiavi salariati che sono assunti più tardi: “Il protocollo prevede di non parlarne in pubblico”. Bonnie Brown, che ha lavorato a Google come massaggiatrice ed è diventata milionaria, ha scritto nel suo libro: “Si è creato un netto contrasto tra dipendenti di Google che lavorano fianco a fianco. Uno controlla sullo schermo gli orari dei cinema in zona, l’altro prenota un volo in Belize per il week-end. Cosa si racconteranno il lunedì mattina?”.
Nel momento in cui si quotava in borsa, Facebook doveva smettere di essere un’azienda che cresceva tanto e diventare un’azienda che faceva tanti soldi. Un po’ ne stava già facendo grazie alle sue dimensioni (come dice Martínez, “qualsiasi numero moltiplicato per un miliardo fa comunque un gran bel numerone”), ma non abbastanza per garantirsi una valutazione veramente spettacolare al lancio. È stato in quel momento che la questione di come monetizzare Facebook ha avuto la piena attenzione di Zuckerberg.
A suo credito, bisogna dire che prima di allora non ci aveva pensato troppo: forse non è particolarmente interessato ai soldi. Però gli piace vincere.
La soluzione era usare l’enorme quantità d’informazioni che Facebook aveva sulla sua “comunità” per permettere agli inserzionisti di raggiungere i loro consumatori potenziali con una precisione fino ad allora sconosciuta. “Il target può essere demografico (per esempio, le donne dai trenta ai quarant’anni), geografico (tutti quelli entro un raggio di dieci chilometri da Sarasota, in Florida) o basato sui dati del profilo di Facebook (hai figli o no? Fai parte del segmento di mercato mamme?)”.
Taplin fa la stessa considerazione: “Se devo contattare tutte le donne tra i 25 e i 30 anni che abitano in un’area con un certo codice postale e amano la musica country e bevono bour-bon, Facebook me lo permette. In più, spesso riesce a far postare agli amici di queste donne una serie di ‘contenuti sponsorizzati’ sul newsfeed dei consumatori target, così non sembra pubblicità. Come ha detto Zuckerberg quando ha presentato Facebook Ads, ‘non c’è niente che influenzi una persona più della raccomandazione di un amico fidato. Un riferimento fidato è il sacro Graal della pubblicità’”.
Questa è stata la prima fase del processo di monetizzazione di Facebook, in cui l’azienda ha sfruttato le sue dimensioni colossali ed è diventata una macchina da soldi. Il sito ha messo a disposizione degli inserzionisti uno strumento di grandissima precisione per inviare i loro annunci pubblicitari a determinate categorie di consumatori.
La seconda fase della monetizzazione è partita nel 2012, quando il traffico online ha cominciato a passare dai computer ai dispositivi mobili. Ormai, se usate un computer per collegarvi a internet siete in minoranza. Questo passaggio era potenzialmente disastroso per tutte le aziende che vivevano di pubblicità online, perché alla gente non piacciono gli annunci pubblicitari sui dispositivi mobili, e ci cliccano molto di meno rispetto a chi li vede sul monitor del computer. In altre parole, anche se nel complesso il traffico online stava aumentando, il valore di questo traffico era proporzionalmente più basso, perché la crescita era concentrata su telefoni e tablet. Se la tendenza fosse continuata, ogni azienda che viveva grazie ai clic degli utenti – cioè più o meno tutte, ma soprattutto i colossi come Google e Facebook – avrebbe perso valore.
Facebook ha risolto il problema grazie a una tecnica che si chiama onboarding. Come spiega Martínez, il miglior modo per capire come funziona è partire dai nomi e dagli indirizzi degli utenti:
Per esempio, se il negozio di biancheria per la casa Bed, Bath and Beyond vuole attirare la mia attenzione con uno dei suoi fantastici buoni sconto del 20 per cento, contatta: Antonio García Martínez, 1 Clarence place #13, San Francisco, CA 9410. Se vuole raggiungermi sul mio smart-phone, lì il mio nome è: 38400000-8cfo-11bd-b23e-10b96e40000d. È il mio nome utente. È praticamente immutabile e viene trasmesso centinaia di volte al giorno sui mobile ad exchanges, le piattaforme tecnologiche per la compravendita di spazi pubblicitari sui dispositivi mobili. Questo invece è il mio nome sul mio computer portatile: 07J6yJPMB9juTowar.AWXGQnGPA1MCmThgb9wN4vLoUpg.BUUtWg.rg.FTN.0. AWUxZtUf. È il contenuto del cookie di retargeting di Facebook, che viene usato per indirizzare gli annunci a seconda di come navigo sui dispositivi mobili.
Anche se magari non è ovvio, ognuna di queste chiavi è collegata a un’enorme quantità d’informazioni sul nostro comportamento: per esempio tutti i siti che abbiamo visitato, molti dei prodotti che abbiamo acquistato nei negozi fisici, ogni app che abbiamo usato e cosa ci abbiamo fatto. In questo momento la più grande novità del marketing, che sta generando decine di miliardi di dollari di investimenti e infiniti ragionamenti e strategie nella pancia di Facebook, Google, Amazon e Apple, è come mettere insieme queste diverse serie di nomi e stabilire chi controlla i collegamenti. Tutto qui.
Facebook disponeva già di un’enorme quantità d’informazioni sugli utenti, sulle loro reti sociali e sulle cose che pubblicamente dicevano di amare e detestare. Una volta capita l’importanza della monetizzazione, l’azienda ha aggiunto moltissimi altri dati sul comportamento offline degli utenti collaborando con grandi aziende come Experian, che da decenni monitorano gli acquisti dei consumatori sfruttando i rapporti con aziende di direct marketing, società di carte di credito e rivenditori al dettaglio. A quanto pare non c’è un modo di descrivere queste aziende con una parola sola: la definizione più sintetica è “agenzie di credito al consumo” o qualcosa di simile.
La loro portata, però, non va sottovalutata. Experian rivela che i suoi dati si basano su più di 850 milioni di acquisti archiviati e dice di essere in possesso d’informazioni su 49,7 milioni di adulti britannici che vivono in 25,2 milioni di case sparse in 1,7 milioni di aree postali. Queste aziende sanno tutto quello che c’è da sapere sul nostro nome, indirizzo, reddito, livello di istruzione e stato civile, più tutti i posti dove abbiamo pagato qualcosa con una carta di credito. Fatto questo, Facebook riesce a risalire all’identità degli utenti con il codice identificativo del telefono.
È stato un passaggio chiave per la redditività dell’azienda. Quando usa lo smart-phone, la gente tende a preferire internet rispetto alle app, che chiudono le informazioni in una specie di recinto e non le condividono con le altre aziende. È difficile che l’app di un gioco scaricata sul mio telefono sappia qualcosa di me a parte il livello che ho raggiunto a quel gioco. Ma Facebook conosce il codice identificativo del telefono di tutti, perché tutto il mondo è su Facebook. In questo modo è riuscita a creare un server in grado di indirizzare le pubblicità sul telefono meglio di chiunque altro, e in una forma molto più elegante e integrata.
Insomma, Facebook conosce il codice utente del mio telefono e può agganciarlo al mio codice utente su Facebook. A questo si aggiunge tutto quello che faccio su internet: non solo tutti i siti che ho visitato, ma ogni singolo clic che ho fatto. L’opzione “condividi su Facebook” traccia ogni utente del social network, che ci clicchi sopra o no. Dato che l’icona di Facebook è praticamente onnipresente in rete, Facebook mi vede sempre, dappertutto. Oggi, grazie alle partnership con le aziende di credito tradizionali, Facebook conosce l’identità di tutti, sa dove vivono e quello che hanno comprato nella loro vita con una carta plastificata in un negozio. Tutte queste informazioni vengono usate per uno scopo che, in ultima analisi, è estremamente banale: vendere prodotti attraverso pubblicità online.
I banner funzionano secondo due modelli. Nel primo, gli inserzionisti chiedono a Facebook di individuare un target: consumatori appartenenti a una determinata tipologia demografica; per esempio, le trentenni appassionate di musica country che bevono bourbon o gli afro-americani di Filadelfia poco entusiasti di Hillary Clinton. Facebook, però, pubblica gli annunci anche attraverso un meccanismo di aste online che scatta ogni volta che clicchiamo su un sito. Siccome ogni sito che abbiamo visitato ha caricato un cookie sul nostro browser, quando finiamo su un nuovo sito, in un milionesimo di secondo parte un’asta in tempo reale che stabilisce quanto valgono le nostre pupille e quali annunci dobbiamo visualizzare sulla base della nostra età, dei nostri interessi, del nostro livello di reddito. Ecco perché gli annunci hanno la tendenza sconcertante a seguirci dovunque andiamo, e se abbiamo cercato un nuovo televisore, un paio di scarpe o una meta per le vacanze continuiamo a vederli spuntare su ogni sito anche a distanza di settimane. Dedicando talento e risorse al problema, Facebook è riuscita a trasformare il traffico su dispositivi mobili da un potenziale disastro economico a una nuova potente cascata di profitti.
È sorprendente che gli utenti non si rendano conto di quello che fa quest’azienda
Questo significa che più ancora della pubblicità, il vero business di Facebook è la sorveglianza. Di fatto, Facebook è la più grande azienda di sorveglianza nella storia dell’umanità. Sa molto, molto di più sul nostro conto di qualsiasi governo di qualsiasi epoca, anche del più intrusivo. È incredibile che le persone non lo abbiano ancora capito. Ho ragionato molto su Facebook, e la cosa che continua a stupirmi è che gli utenti non si rendano conto di quello che fa quest’azienda.
Facebook ci osserva, e poi usa quello che sa di noi e del nostro comportamento per vendere pubblicità.
Non credo che esista uno scollamento più totale tra ciò che un’azienda dice (“mettere in contatto”, “costruire comunità”) e la realtà commerciale. Come se non bastasse, le informazioni sugli utenti non sono usate solo per mandargli pubblicità online, ma anche per determinare il flusso delle notizie. Su Facebook ci sono tantissimi contenuti, e sono gli algoritmi usati per filtrare e indirizzare questi contenuti a stabilire ciò che vediamo: la gente pensa che il newsfeed si basi grosso modo sui suoi contatti e i suoi interessi, e in un certo senso è così, ma il dettaglio fondamentale da tener presente è che questi amici e interessi sono quelli mediati dagli interessi commerciali di Facebook. I nostri occhi vengono indirizzati dove per Facebook è più conveniente che vadano.
Clic veri e clic falsi
Mi chiedo cosa succederà se questa monetina da 450 miliardi di dollari cadrà a terra. Nella storia dei “mercanti dell’attenzione” raccontata da Wu c’è un tema ricorrente: dopo il momento del boom arriva una reazione negativa dell’opinione pubblica, che talvolta sfocia in una legge. Il primo esempio di Wu è la severissima normativa contro l’affissione di cartelloni pubblicitari introdotta a Parigi all’inizio del novecento (e tuttora in vigore: ecco perché la capitale francese non è sfigurata dalla pubblicità, almeno per gli standard di oggi). Come dice Wu, “quando la merce in questione è l’accesso alle menti delle persone, la ricerca continua della crescita si scontra inevitabilmente con forme, piccole e grandi, di disaffezione”. Un’espressione minore di questo fenomeno è quello che Wu chiama “effetto disincanto”.
Facebook sembrerebbe particolarmente soggetto all’effetto disincanto, a cominciare dall’elemento centrale del suo modello d’impresa: la vendita di pubblicità. La pubblicità che l’azienda vende è “programmatica”, cioè determinata da algoritmi che trovano una corrispondenza tra l’utente e l’inserzionista, e sulla base di questa corrispondenza pubblicano gli annunci attraverso meccanismi di individuazione del target e aste online. Il problema, dal punto di vista del cliente (badate bene, il cliente è l’inserzionista, non l’utente di Facebook), è che molti clic su questi annunci sono falsi. Qui ci sono interessi contrastanti. Facebook vuole i clic, perché è così che guadagna. Cosa succede però se questi clic non sono veri clic, ma sono generati in automatico da finti account gestiti da bot informatici? È un problema noto, che riguarda soprattutto Google: non ci vuole niente a creare un sito che ospiti banner e poi creare un bot che clicchi sui banner. A quel punto non resta che contare le monete che cadono come in una slot machine. Su Facebook, il più delle volte i clic fraudolenti sono generati da aziende che cercano di far aumentare i costi per le concorrenti.
La rivista di settore Ad Week calcola che il costo annuale dei clic fraudolenti è di sette miliardi di dollari, circa un sesto dell’intero mercato. Le stime sul mercato del traffico fraudolento sono discordanti; in genere si calcola un’incidenza intorno al 50 per cento, ma i dati di alcuni siti web indicano un tasso di clic fraudolenti addirittura del 90 per cento. Sicuramente non è un problema solo di Facebook, ma è facile immaginare che prima o poi si scatenerà una rivolta contro l’ad tech, come viene chiamata questa tecnologia, da parte delle aziende che pagano. Alcuni studiosi dicono che c’è una sorta di pensiero di gruppo aziendale nel mondo dei grandi acquirenti di pubblicità che in questo momento destinano a Facebook una buona parte del loro budget. In futuro il loro atteggiamento potrebbe cambiare. Inoltre, molte statistiche di Facebook sono studiate per presentare i numeri nella maniera più allettante. Su Facebook un video viene contato come “visto” dopo appena tre secondi, anche se l’utente lo sta semplicemente scorrendo mentre compare nel suo newsfeed, magari senza audio. Molti video che su Facebook hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni, se misurati con i metodi usati per calcolare l’audience televisiva avrebbero zero visualizzazioni.
Una rivolta dei consumatori potrebbe sommarsi a un giro di vite da parte delle autorità di vigilanza e dei governi. Google e Facebook hanno di fatto un monopolio della pubblicità digitale. Questo potere diventa sempre più importante man mano che la spesa pubblicitaria si sposta online. Messe insieme, le due aziende hanno già distrutto una buona parte del settore dell’industria dei giornali.
Facebook ha contribuito enormemente ad abbassare la qualità del dibattito pubblico e non è mai stato così facile dire quelle che Hitler chiamava con approvazione “grandi bugie” e darle in pasto alla collettività. L’azienda non ha motivi per preoccuparsene dal punto di vista degli affari, ma è il tipo di problema che potrebbe attirare l’attenzione delle autorità. Questa non è l’unica minaccia esterna al duopolio Google/Facebook. L’orientamento degli Stati Uniti in tema di antitrust si deve al giudice Robert Bork, nominato alla corte suprema da Ronald Rea-gan ma non riconfermato dal senato. La posizione più influente di Bork è quella in materia di legge sulla concorrenza. Secondo la dottrina Bork, l’unica forma d’intervento ammissibile per garantire la concorrenza riguarda i prezzi pagati dai consumatori. L’idea è che se i prezzi scendono vuol dire che il mercato funziona bene, quindi non c’è nessuna distorsione da correggere. Questa dottrina influenza ancora l’antitrust statunitense ed è il motivo per cui Amazon, per esempio, non è stata multata pur avendo una chiara posizione di monopolio nel commercio al dettaglio online, soprattutto dei libri.
Su questi terreni le grandi imprese di internet sembrano invulnerabili. O almeno lo sono finché non entra in ballo la questione dei prezzi personalizzati. L’enorme scia di dati che ci lasciamo dietro navigando su internet viene usata per bombardarci di offerte che non sono come i cartellini attaccati ai prodotti nei negozi: cambiano in funzione della nostra capacità di spesa. In Spagna quattro ricercatori hanno studiato il fenomeno simulando il comportamento di utenti “previdenti” o “benestanti”, quindi hanno verificato se i due diversi comportamenti portavano a offerte degli stessi prodotti con prezzi diversi. Effettivamente è così: cercando delle cuffie audio fingendosi un consumatore benestante i prezzi erano in media quattro volte più alti, e un sito di sconti sui biglietti aerei proponeva tariffe sistematicamente più alte. In generale, il luogo da cui si fa la ricerca determina una differenza di prezzo fino al 166 per cento. In parole povere: sì, i prezzi personalizzati sono una realtà, e sono decisi in base alla nostra attività online. Mi sembra una violazione evidente dell’antitrust statunitense che, come abbiamo visto, si concentra esclusivamente sul prezzo. In un certo senso è buffo, e anche un po’ grottesco, che un sistema di sorveglianza degli utenti di proporzioni inaudite vada bene, mentre un sistema simile che presuppone anche una personalizzazione dei prezzi possa essere illegale.
Forse la più grande minaccia per Facebook è che gli utenti abbandonino la nave. Due miliardi di utenti mensili attivi sono un sacco di persone, e l’effetto social – la dimensione della connessione – ovviamente è straordinario. Ma ci sono altre aziende capaci di connettere le persone secondo lo stesso ordine di grandezza – Snapchat ha 166 milioni di utenti giornalieri, Twitter 328 milioni di utenti mensili – e come abbiamo visto con la scomparsa di Myspace, ex leader dei social network, quando la gente cambia idea su un servizio lo abbandona in fretta e senza tanti complimenti.
Per questo motivo, se ci fosse la percezione generalizzata che il modello di business di Facebook è basato sulla sorveglianza, l’azienda sarebbe in pericolo. L’unica volta che Facebook ha fatto un sondaggio tra gli utenti sull’uso dei loro dati è stato nel 2011, quando ha proposto un cambio dei termini e delle condizioni di servizio. Il risultato del sondaggio è stato chiaro: il 90 per cento era contrario. L’azienda è andata avanti lo stesso e ha cambiato i termini e le condizioni, giustificandosi con il fatto che avevano votato pochissime persone. Non c’è da meravigliarsi che agli utenti non piaccia essere spiati da Facebook né che a Facebook non interessi la loro opinione. Ma anche questo potrebbe cambiare.
Un’altra cosa che potrebbe succedere è che la gente smetta di andare su Facebook perché andarci la fa sentire infelice. E non sto parlando di quando si è scoperto che gli esperti di scienze sociali dell’azienda avevano deliberatamente manipolato il newsfeed di alcuni utenti per vedere che effetto aveva sulle loro emozioni. Dall’esperimento, fatto nel 2014, è nato un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, uno studio dell’“influenza sociale” o “trasmissione delle emozioni” tra gruppi di persone in seguito a un cambio di impostazione delle notizie visualizzate. “Quando diminuivano le manifestazioni di emozioni positive, gli utenti che le avevano visualizzate pubblicavano meno post positivi e più post negativi; quando diminuivano le manifestazioni di emozioni negative succedeva il contrario.
Questi risultati dimostrano che le emozioni espresse dagli altri su Facebook influenzano le nostre e costituiscono una prova sperimentale della forza d’influenza dei social network”. A quanto pare gli esperti non hanno pensato a come sarebbe stata accolta questa notizia e la vicenda ha avuto una certa risonanza per un po’ di tempo.
Amici infelici
Forse il fatto che l’opinione pubblica era già a conoscenza di questo studio ha accidentalmente distolto l’attenzione da quello che avrebbe dovuto essere uno scandalo ben più grande, emerso qualche mese fa grazie a un articolo dell’American Journal of Epidemiology. L’articolo era intitolato “Association of Facebook with compromised well-being: a longitudinal study”, associazione tra Facebook e benessere compromesso: uno studio longitudinale. I ricercatori hanno scoperto che più la gente va su Facebook più è infelice. Un aumento dell’1 per cento dei “mi piace”, dei clic e degli aggiornamenti dello status è correlato a un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Inoltre, l’effetto positivo delle interazioni nel mondo reale, che fanno bene alla salute, corrisponde esattamente “all’associazione negativa dell’uso di Facebook”. In sostanza, le persone rinunciano alle relazioni reali, che le fanno star bene, per andare su Facebook, che le fa star male.
Queste conclusioni sono mie e non degli studiosi, che ci tengono a chiarire che si tratta di una correlazione e non di una relazione causale definita, pur sostenendo che i dati “suggeriscono un possibile rapporto di costo-opportunità tra relazioni off-line e on-line”. Non è la prima volta che viene riscontrato un effetto simile. In sintesi: ci sono parecchi studi che dimostrano che Facebook ci fa stare di merda. Quindi, magari, un giorno la gente smetterà di andarci.
E se invece non succederà niente di tutto questo? Se gli inserzionisti non si ribelleranno, i governi non prenderanno provvedimenti, gli utenti non se ne andranno e la barca di Zuckerberg continuerà a navigare imperterrita? Torniamo per un momento ai due miliardi di utenti mensili attivi. Il numero totale delle persone che hanno un accesso a internet – nella definizione più ampia possibile, che comprende le connessioni telefoniche più lente, i servizi di telefonia mobile più scadenti dei paesi in via di sviluppo e la gente che ha accesso a internet ma non la usa – è tre miliardi e mezzo. Di questi, circa 750 milioni vivono in Cina e in Iran, dove Facebook è bloccato. I russi, circa cento milioni di utenti, tendono a non usare Facebook perché preferiscono VKontakte, una specie di copia locale molto simile. Quindi il pubblico potenziale è di 2,6 miliardi.
Nei paesi sviluppati, dove Facebook è presente da anni, il livello massimo di utenza raggiunge il 75 per cento della popolazione (negli Stati Uniti). Questo presupporrebbe un’utenza totale potenziale di 1,95 miliardi di persone. Con due miliardi di utenti mensili attivi, Facebook ha già superato questa soglia, e rischia di ritrovarsi a corto di esseri umani collegati in rete. Martínez paragona Zuckerberg ad Alessandro Magno, che piangeva perché non aveva più terre da conquistare. Forse è per questo che Zuckerberg ha lanciato segnali su una sua possibile candidatura alla presidenza degli Stati Uniti: il giro dei cinquanta stati per fare finta che gliene freghi qualcosa della gente, o la posa riflessiva in cui si è fatto immortalare mentre beve un frullato in una tavola calda in Iowa.
Qualunque cosa succeda, avrà a che vedere con i due pilastri dell’azienda, crescita e monetizzazione. La crescita può arrivare solo da un’estensione della copertura di internet ad altre aree del pianeta. Un primo esperimento è stato Free Basics, un programma per garantire il collegamento a internet nei villaggi sperduti dell’India, con la clausola che i siti visitabili siano scelti da Facebook. “Chi può essere contrario a una cosa del genere?”, ha scritto Zuckerberg sul Times of India. Risposta: tanti indiani arrabbiati. Il governo ha stabilito che Facebook non può “manipolare a suo piacimento l’esperienza di internet degli utenti” restringendo il loro accesso alla rete. Un consigliere d’amministrazione di Facebook ha twittato ironicamente che “l’anticolonialismo è stato per decenni una catastrofe economica per il popolo indiano. Perché smettere ora?”. Come osserva Taplin, questo commento “ha rivelato inconsapevolmente una verità: Facebook e Google sono le nuove potenze coloniali”.
La crescita, dunque, si presenta non senza difficoltà, sia tecnologiche sia politiche. Google (che ha un problema di scarsità di esseri umani da conquistare simile a Facebook) sta lavorando al Project Loon, “una rete di mongolfiere che viaggiano ai margini dello spazio, progettate per estendere la copertura di internet a chi vive nelle zone rurali più sperdute del mondo”. Facebook sta sviluppando Aquila, un drone alimentato a energia solare che ha l’apertura alare di un aereo di linea, pesa meno di un’automobile e quando è a velocità di crociera consuma meno energia di un forno a microonde. Il drone volerà in circolo sulle zone più remote e ancora non connesse del pianeta, collegando gli utenti via laser; ogni missione durerà al massimo tre mesi. È stato sviluppato a Bridgewater, nel Somerset (anche il progetto dei droni di Amazon è sviluppato nel Regno Unito: il sistema giuridico britannico è favorevole ai droni).
Futuro preoccupante
Perfino il più incallito critico di Facebook non può che restare impressionato di fronte a tanta ambizione ed energia. Resta il fatto che sarà difficile trovare i prossimi due miliardi di utenti.
Questo per quanto riguarda la crescita, che riguarderà principalmente i paesi poveri. Nel mondo ricco, invece, Facebook si concentrerà sulla monetizzazione, ed è questo aspetto che, come avrete già capito, mi preoc-cupa. Ho paura di Facebook. L’ambizione dell’azienda, il suo cinismo, la sua mancanza di princìpi mi spaventano. Tutto parte da quel giorno fatidico, con Zuckerberg davanti alla tastiera che s’inventa un sito per mettere a confronto le facce della gente, senza nessun motivo particolare ma semplicemente perché è capace di farlo.
È questo l’aspetto cruciale di Facebook, la cosa che la gente non capisce sulle motivazioni dell’azienda: Facebook fa le cose perché può farle. Zuckerberg sa come si fa una cosa e altri no, quindi la fa. Questo tipo di motivazione non funziona nella versione holly-woodiana della vita, quindi Aaron Sorkin ha dovuto inventarne una che avesse a che fare con l’aspirazione sociale e il rifiuto. Ma è andato completamente fuori strada. La motivazione di Zuckerberg non c’entra niente con questa specie di psicologia spicciola. Lui lo fa perché lo sa fare, e “connessione” e “comunità” sono razionalizzazioni a posteriori. La sua spinta è molto più semplice ed elementare. Ecco perché l’impulso alla crescita è stato fondamentale per questa azienda, che per molti versi sembra un virus più che un’impresa commerciale. Crescere, moltiplicarsi e monetizzare. Perché? Non c’è un perché. Perché sì.
L’automazione e l’intelligenza artificiale avranno un enorme impatto in tutti i campi. Queste tecnologie sono reali, e arriveranno molto presto. E Facebook le guarda con molto interesse. Non sappiamo dove ci porterà tutto questo, non sappiamo quali saranno i costi e le conseguenze sociali, non sappiamo quale sarà la prossima parte della nostra vita che si svuoterà, il prossimo modello d’impresa che sarà distrutto, la prossima azienda che farà la fine della Polaroid, il prossimo settore che farà la fine del giornalismo o la prossima combinazione di strumenti e tecniche che sarà a disposizione di quelli che hanno usato Facebook per manipolare le elezioni statunitensi nel 2016. Non sappiamo cosa ci aspetta, ma sappiamo che avrà delle conseguenze, e che il social network più grande del mondo avrà un ruolo importante. Se dobbiamo basarci su quello che Facebook ha fatto finora, è impossibile affrontare questa prospettiva senza preoccuparsi.
(Traduzione di Fabrizio Saulini)
Le foto di questo articolo fanno parte del progetto Are you really my friend?, in cui la fotografa ha ritratto quasi trecento dei suoi 678 amici di Facebook. Molti non li aveva mai visti di persona.
Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2017 nel numero 1222 di Internazionale.
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