Alcune immagini diffuse dall’esercito israeliano mostrano i bulldozer che si muovono sul terreno brullo e desolato della Striscia di Gaza posizionando blocchi di cemento gialli a intervalli di circa duecento metri. Servono a delimitare la cosiddetta linea gialla, l’area destinata a rimanere sotto il controllo di Tel Aviv durante la prima fase dell’accordo per il cessate il fuoco, raggiunto tra Israele e Hamas ed entrato in vigore nel territorio palestinese il 10 ottobre. La linea gialla taglia la Striscia praticamente a metà, lasciando l’esercito israeliano a occupare il 53 per cento del territorio: tutta la parte orientale e i confini a nord e a sud, comprese le città di Rafah, Beit Lahia, Beit Hanun e gran parte di Khan Yunis.

Hamas sta cercando di riprendere il controllo della parte occidentale, da cui si è ritirato l’esercito israeliano, scontrandosi con alcuni gruppi che negli ultimi tempi hanno aumentato la loro influenza e sono accusati di aver collaborato con Israele. Sono state commesse anche alcune esecuzioni pubbliche. Intanto nell’altra metà del territorio l’esercito israeliano rafforza i suoi avamposti militari e spara contro chiunque si avvicina alla linea gialla, che sia contrassegnata dai blocchi o meno. Un’inchiesta della Bbc basata su video e immagini satellitari rivela inoltre che nelle zone nord e sud l’esercito sta piazzando i blocchi centinaia di metri più all’interno del territorio palestinese rispetto a quanto prevede la linea definita dall’accordo.

Il ministro della difesa israeliano Israel Katz ha avvertito che chiunque supererà la linea sarà “accolto con il fuoco”. Ci sono stati già diversi incidenti mortali nei pressi della linea gialla, che secondo i palestinesi non è chiaramente indicata. Il confine infatti non è mai stato definito con precisione e nel periodo precedente all’entrata in vigore del cessate il fuoco la Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e l’esercito israeliano hanno diffuso tre mappe diverse. Il 14 ottobre l’esercito ha pubblicato un’ultima versione sulla sua mappa online, che usa per comunicare la posizione delle truppe alla popolazione di Gaza.

Abdel Qader Ayman Bakr, che vive vicino alla linea gialla nel quartiere di Shejaiya, nella parte orientale della città di Gaza, ha raccontato alla Bbc le sue preoccupazioni: “Ogni giorno vediamo veicoli militari e soldati israeliani a una distanza relativamente ravvicinata, ma non abbiamo modo di sapere se ci troviamo in quella che è considerata una ‘zona sicura’ o in una ‘zona di pericolo attivo’. Siamo costantemente esposti al pericolo”.

Anche il Guardian ha raccolto i timori della popolazione locale. Mohammad Khaled Abu al Hussain, 31 anni e padre di cinque figli, vive appena a est della linea gialla a Khan Yunis. “Nella nostra zona le linee gialle non sono chiaramente visibili. Non sappiamo dove cominciano o finiscono. Penso che altrove siano più chiare, ma qui non c’è niente di definito”, ha detto al quotidiano britannico. “Appena ci avviciniamo alle nostre case, i proiettili cominciano a volare da ogni direzione e, a volte, piccoli droni, i quadrirotori, volteggiano sopra di noi, osservando ogni nostro movimento. Mi sembra che la guerra non sia davvero finita per me. Che senso ha un cessate il fuoco se non posso ancora tornare a casa?”.

Il governo israeliano ha ribadito la sua volontà di mantenere il controllo della sicurezza a Gaza. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato il 26 ottobre che sarà Israele a decidere dove e quando colpire i suoi nemici e quali paesi potranno inviare truppe per sorvegliare la tregua. Il piano in venti punti annunciato da Trump prevede il ritiro delle truppe israeliane in tre fasi, fino a quella che è stata definita una “zona cuscinetto di sicurezza” che si estenderebbe su un’area limitata lungo tutto il perimetro della Striscia. Ma ci sono ancora molti ostacoli da superare e interessi da conciliare per passare alla seconda fase dell’accordo, che dovrebbe comportare anche il disarmo di Hamas e l’intervento di una forza multinazionale di stabilizzazione.

Gli alleati di estrema destra della coalizione di governo di Netanyahu sono contrari a un ulteriore ritiro dell’esercito e all’internazionalizzazione del controllo su Gaza. Per questo alcuni esperti prevedono che la linea gialla potrebbe diventare un nuovo confine permanente, segregando i più di due milioni di abitanti palestinesi nella metà del territorio sul quale vivevano prima della guerra.

Yoav Zitun, che si occupa delle questioni militari sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth, ha scritto che la linea gialla potrebbe diventare “una barriera alta e sofisticata che ridurrà la Striscia di Gaza, amplierà il Negev occidentale e consentirà la costruzione di insediamenti israeliani in quella zona”. Jeremy Konyndyk, presidente dell’organizzazione Refugees international, ha confermato al Guardian che il consolidamento della linea gialla “sembra di fatto un’annessione strisciante di Gaza”.

Secondo Mouin Rabbani, ricercatore del Center for conflict and humanitarian studies di Doha intervistato da Al Jazeera, Israele “non ha mai realmente rispettato nessuno degli impegni” previsti dall’accordo, compreso il ritiro delle truppe o il permesso di far entrare a Gaza la quantità di aiuti concordata. Le pressioni degli Stati Uniti, ha aggiunto Rabbani, impediscono a Israele di ignorare completamente il cessate il fuoco, per questo attua una “graduale intensificazione del processo di erosione”.

Negli ultimi giorni nella stampa israeliana e statunitense si è diffuso il neologismo “bibisitting”, composto dalle parole “babysitter” e “Bibi”, il soprannome di Benjamin Netanyahu. Si riferisce allo sforzo compiuto dai vertici dell’amministrazione Trump per impedire al governo israeliano di mandare all’aria il cessate il fuoco. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le missioni dei più importanti politici statunitensi in Israele: dopo Trump è stata la volta del vicepresidente JD Vance, del segretario di stato Marco Rubio, dell’inviato speciale per il Medio Oriente Steve Witkoff e del genero di Trump Jared Kushner.

Secondo la Cnn queste visite non hanno a che fare tanto con la solidarietà e la deterrenza, ma “riguardano la gestione e il rispetto degli accordi. Gli Stati Uniti non stanno semplicemente mediando il cessate il fuoco a Gaza, ma lo stanno gestendo attivamente”. Quello che però non è ancora chiaro è l’obiettivo a lungo termine. Come scrive il giornalista Roy Schwartz sul Guardian, “l’amministrazione Trump sembra più concentrata sul mantenimento dell’attuale fase instabile di cessate il fuoco che sul passaggio alla fase successiva: la ricostruzione di Gaza. Su questo punto, sembra che gli Stati Uniti abbiano delle ambizioni ma nessun piano concreto”.

Ancora non si sa quando l’organismo di governo internazionale proposto dal piano entrerà effettivamente in carica, e lo stesso vale per la forza di sicurezza che dovrebbe essere schierata sul terreno. Anche la questione del disarmo di Hamas resta vaga. In un’analisi sul sito dell’European council on foreign relations, il giornalista ed esperto di Gaza Muhammad Shehada approfondisce le dinamiche politiche interne a Hamas, suggerendo che tutte le concessioni fatte dal movimento sono uno strumento per verificare se la sua moderazione possa portare a progressi diplomatici. Se così fosse il “pragmatismo di Hamas” potrebbe provocare “concreti cambiamenti politici e ideologici” all’interno del gruppo, marginalizzando l’ala più oltranzista e favorendo maggiori aperture.

Gli europei ne dovrebbero approfittare per promuovere, insieme ai paesi arabi, un approccio “più intelligente e paziente” in grado di costruire un vero consenso palestinese intorno al piano Trump ed evitare che Israele riporti la guerra a Gaza. Hamas non cambierà dall’oggi al domani, ma la diplomazia internazionale dovrebbe sfruttare questo momento di flessibilità per fargli superare la logica della guerra perpetua. La posta in gioco è più alta di un cessate il fuoco o del piano Trump, conclude Shehada: “È in gioco la possibilità che un movimento stanco della guerra ma resiliente possa essere coinvolto in un processo sostenibile di reintegrazione e moderazione, o se questa apertura sarà nuovamente chiusa da richieste massimaliste e irraggiungibili”.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Mediorientale.

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