È arrivato il tempo del dialogo nel conflitto che scuote le regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo (Rdc)? Dopo mesi di esitazioni e di incontri diplomatici mancati a Nairobi, Luanda e Dar es Salaam, in queste ultime settimane la storia sembra aver accelerato. A Doha, in Qatar, il 18 marzo l’emirato è riuscito a riunire il presidente congolese Félix Tshisekedi e quello ruandese Paul Kagame, e poi a organizzare tre settimane di colloqui tra il governo di Kinshasa e i ribelli del movimento M23, dai quali è scaturito un progetto di “tregua”. Infine il 25 aprile, negli Stati Uniti, Rdc e Ruanda hanno firmato una “dichiarazione di princìpi”, gettando le basi per un futuro accordo di pace che potrebbe vedere la luce il 2 maggio.
E la vera sorpresa degli ultimi giorni arriva proprio da Washington. Chi pensava che gli Stati Uniti di Donald Trump si sarebbero tenuti fuori dal conflitto congolese ha dovuto ricredersi. In difficoltà su Gaza e sull’Ucraina, e non pervenuto in Africa occidentale, il presidente statunitense sembra intenzionato a riportare un rapido successo diplomatico prendendo in mano il dossier congolese.
La dichiarazione di princìpi firmata il 25 aprile dalla ministra degli esteri congolese Thérèse Kayikwamba Wagner e dal collega ruandese Olivier Nduhungirehe propone un approccio globale, che dovrebbe sfociare in un accordo di pace tra i due paesi. La dichiarazione riprende i principali punti già trattati nelle varie tornate negoziali a Nairobi e a Luanda, ma evidentemente lo fa con più efficacia grazie al peso della mediazione statunitense. Il documento “riconosce la sovranità e l’integrità territoriale” dei due stati, e “il diritto sovrano di governare e di amministrare il proprio territorio”, astenendosi “da qualsiasi ingerenza negli affari interni dell’altro”.
La dimensione economica
Per quel che riguarda le milizie, il testo propone di “limitare la proliferazione dei gruppi armati non statuali all’interno e oltre le proprie frontiere, impegnandosi a non fornirgli sostegno militare”. La dichiarazione fa riferimento, senza nominarlo apertamente, all’appoggio fornito del Ruanda ai combattenti dell’M23 e a quello di Kinshasa ai miliziani delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr) e ai gruppi ausiliari wazalendo. Il testo prevede anche il ritorno di profughi e sfollati. Secondo Kigali, sono centomila i congolesi presenti sul territorio ruandese.
La novità è che questa dichiarazione di princìpi affronta anche le questioni economiche, mai discusse nelle mediazioni africane. Il documento propone una cooperazione economica nello sfruttamento delle risorse naturali. L’argomento è molto delicato, soprattutto quando si parla di minerali preziosi come il tungsteno, il tantalio o lo stagno, di importanza strategica nella catena di approvvigionamento dell’industria tecnologica.
Ma questo patto economico è motivo di preoccupazione per Kinshasa, che sulla questione potrebbe risultare perdente, anche se la dichiarazione specifica che entrambi i paesi devono “ricavare maggiore prosperità dalle risorse naturali della regione grazie a collaborazioni e a opportunità d’investimento reciprocamente vantaggiose”. L’accordo include anche “le autorità e il settore privato” statunitensi, che si sono autoinvitati al tavolo degli investitori. Insomma, non ci sarà alcun miracolo per Kinshasa, che arriva a queste trattative in posizione di debolezza. Una fonte occidentale ha dichiarato ad Afrikarabia che questo accordo tra stati consisterà in “affari in cambio di territori, e l’est del Congo diventerà un’estensione economica del Ruanda”.
La dichiarazione di princìpi di Washington ha in parte eclissato i discreti negoziati di Doha tra le autorità congolesi e l’M23. Dai colloqui sono trapelati pochi elementi, soprattutto per quanto riguarda ciò che ognuna delle parti può mettere sul tavolo. Per l’M23 le questioni delicate sono la sua integrazione nell’esercito e nelle istituzioni politiche, e l’amnistia per i suoi combattenti, tutti condannati a morte da Kinshasa.
Ma tra l’opposizione e la società civile queste rivendicazioni suscitano preoccupazione. L’oppositore Delly Sesanga e il movimento della società civile Lucha sono contrari alla reintegrazione dei ribelli nell’esercito, una scelta che negli ultimi trent’anni non ha fatto che indebolire l’esercito congolese. Lo stesso si può dire delle amnistie e di un’eventuale spartizione del potere, che di fatto formalizzerebbero l’impunità per i gruppi armati.
Infine, che dire del nuovo mediatore togolese, Faure Gnassingbé, che conduce la mediazione per conto del continente? Le iniziative emiratine e statunitensi potrebbero metterlo in ombra, ma sarebbe sbagliato escluderlo dalla soluzione del conflitto, che dovrà essere africana. Gnassingbé è ormai l’unico interlocutore del conflitto e mantiene buone relazioni con i due governi. Un altro vantaggio è che il suo paese non fa parte né della Comunità dell’Africa orientale né della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale, due istituzioni rivali che hanno bloccato gli sforzi di mediazione regionale.
Infine, Gnassingbé offre una carta interessante per l’Unione africana (UA), che finora non ha dimostrato grande efficacia. Ma dopo la ripresa della lotta armata dell’M23, alla fine del 2021, e la faticosa e caotica attuazione dei processi di pace di Nairobi e Luanda, possiamo chiederci perché si sia sprecato tutto questo tempo.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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