Mohamed Shahin è l’imam della moschea di San Salvario, a Torino, una delle comunità islamiche più longeve e grandi d’Italia. Vive in Italia dal 2004, ha una moglie e due figli di nove e dodici anni ed era titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo, quello che ottengono le persone di origine straniera dopo aver vissuto e lavorato per lungo tempo in Italia.
Shahin è incensurato, ha insegnato l’arabo nella scuola dell’esercito di Torino ed è una persona stimata e riconosciuta dagli abitanti della città e dai rappresentanti delle istituzioni, in quanto a lungo impegnato nel dialogo interreligioso cittadino e in attività religiose e sociali. Come molti esponenti della comunità islamica torinese, è stato in prima linea nelle manifestazioni di solidarietà con la Striscia di Gaza, organizzate in città negli ultimi anni. E probabilmente proprio a causa della sua partecipazione a queste proteste, ora rischia l’espulsione in Egitto, il suo paese di origine. Un paese che l’Italia considera sicuro, nonostante le numerose persecuzioni e torture subite dagli oppositori politici del regime di Al Sisi, che sono in carcere a migliaia.
Il 24 novembre scorso, mentre accompagnava i figli a scuola, Shahin è stato fermato da agenti della polizia e portato in questura, dove gli è stato notificato un decreto di espulsione emesso dal ministero dell’interno “per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello stato”. Il decreto non dice altro. Allo stesso tempo gli è stato revocato il permesso di soggiorno di lungo periodo e gli è stato notificato l’accompagnamento alla frontiera.
Shahin è accusato di essere “pericoloso”. Nel decreto di espulsione si parla di un “percorso di radicalizzazione religiosa”, di “una ideologia fondamentalista di chiara matrice antisemita” e del suo ruolo “in ambienti dell’islam radicale”. Ma non si forniscono prove delle accuse molto gravi che gli vengono rivolte. Il provvedimento contesta a Shahin di aver incontrato due persone coinvolte in percorsi di radicalizzazione, ma l’imam le ha incontrate nel 2012 e nel 2018 prima che si radicalizzassero e in ogni caso lo ha fatto come leader religioso della sua comunità.
Gli viene inoltre contestato di aver partecipato a un blocco stradale durante una manifestazione per la Palestina e di aver dichiarato, durante una protesta il 9 ottobre scorso, che “quanto successo il 7 ottobre” in Israele non è stato un atto di terrorismo, ma “di resistenza”. Questa frase, accusata di essere violenta e antisemita, è stata oggetto di un’interrogazione parlamentare della deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli, che di fatto ha sollecitato l’espulsione del religioso.
Tempi bui
Durante l’udienza di convalida del trattenimento in questura, Shahin ha presentato richiesta di asilo, perché in Egitto potrebbe essere perseguitato dal regime di Al Sisi, contro il quale ha preso più volte posizione.
La richiesta di asilo ha sospeso temporaneamente l’espulsione, ma il questore lo ha fatto trasferire nel centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Caltanissetta. Il 27 novembre il trattenimento è stato convalidato e la richiesta di asilo respinta dalla commissione territoriale di Siracusa, secondo la quale Shahin non corre nessun pericolo a tornare in Egitto. Sono stati presentati dei ricorsi e ne saranno presentati degli altri, ma l’ordine di espulsione potrebbe essere attuato a breve.
“Stiamo presentando numerosi ricorsi”, conferma Gianluca Vitale, avvocato di Shahin. “Abbiamo scoperto per esempio che le frasi contestate erano già state archiviate e non considerate reato dalla procura di Torino. Quando il 9 ottobre la Digos (divisione investigazioni generali e operazioni speciali della polizia) ha trasmesso alla procura il discorso pronunciato dall’imam, i pubblici ministeri di Torino hanno archiviato il caso, considerando che il fatto non costituiva un reato”, aggiunge Vitale. Nel fascicolo con cui ha archiviato il caso la procura ha scritto che la frase pronunciata è “espressione di pensiero che non integra estremi di reato”. Vitale sottolinea che “la procura di Torino non ha visto nessun pericolo in questa persona”.
“Questo tipo di decreto di espulsione è emblematico dei tempi bui in cui viviamo. Il ministero dell’interno, quindi l’autorità politica ed esecutiva, decide in base a una discrezionalità assoluta della pericolosità di una persona, non tenendo conto delle pronunce dell’autorità giudiziaria. Si tratta di un grave attacco alla libertà di espressione, cardine delle nostre democrazie”, conclude l’avvocato.
Il 30 novembre a Torino il quartiere San Salvario e tutta la comunità islamica della città si sono mobilitati in difesa dell’imam. Sono stati lanciati appelli anche da associazioni come Arci, Cgil, Anpi e A buon diritto e dalla chiesa valdese, e da personalità che avevano lavorato in passato con Shahin, come il vescovo di Pinerolo Derio Olivero. Il caso è stato anche all’origine dell’attacco alla redazione del quotidiano di Torino La Stampa, durante una manifestazione filopalestinese avvenuta il 29 novembre.
Per il giurista Livio Pepino “il decreto di espulsione del ministro è un gesto di pura repressione del dissenso finalizzato a indebolire e criminalizzare il movimento di solidarietà al popolo palestinese. In una democrazia le idee si confrontano, si discutono e, nel caso, si contestano, ma non possono essere il presupposto per interventi repressivi di qualunque natura”.
L’articolo 21 della costituzione è chiaro, aggiunge Pepino: “La libertà di parola e di espressione del pensiero non può essere sottoposta a limiti, se non quelli previsti dal diritto penale. Pretendere di contrastarla con strumenti amministrativi e, addirittura, con un provvedimento di espulsione è fuori dal sistema costituzionale”.
“Nel decreto di convalida del trattenimento di Shahin, la corte d’appello si spinge a indicare come inaccettabile ‘la possibilità che le parole e la loro diffusione creino disordine e instabilità’”, sottolinea Pepino. Ma “sono proprio queste le parole tutelate dalla carta fondamentale, non certo quelle a sostegno dell’ordine costituito e della stabilità del sistema. La libertà di espressione del pensiero infatti, serve ‘a rendere libero l’eretico, l’anticonformista, il radicale minoritario: tutti coloro che, quando la maggioranza era liberissima di pregare Iddio e osannare il re, andavano sul rogo o in prigione tra l’indifferenza o il compiacimento dei più’”.
Cittadini a metà
Il consigliere comunale di Torino, presidente della commissione intolleranza e razzismo, Abdullahi Ahmed era presente alla manifestazione del 30 novembre e racconta: “Davanti alla moschea Omar Ibn al Khattab di San Salvario, un quartiere intero si è ritrovato insieme per ricordare chi è davvero Mohamed: un imam per i musulmani, un vicino di casa, un amico per tutti gli altri. Erano presenti le case del quartiere, le realtà del terzo settore, le persone che ogni giorno vivono e costruiscono questa comunità. Un segno forte, concreto, di una città che non si lascia dividere. Accanto a noi anche rappresentanti di diverse fedi e realtà sociali: Sergio Velluto della chiesa valdese; Marco Durando, parroco della chiesa cattolica; Elena Ferro, segretaria della Cgil di Torino; Augusto Montaruli per l’Anpi di Torino. Presenze che testimoniano come la difesa della dignità umana superi ogni appartenenza”.
Ahmed è allarmato dal provvedimento: “Conosco molto bene l’imam, ci conosciamo dal 2014. Non è stato abbastanza sottolineato quanto si sia impegnato per il dialogo interreligioso in un quartiere unico in Italia come San Salvario. È stato in prima linea in anni difficili come quelli degli attentati del gruppo stato islamico in Europa perché non si perdesse la speranza nel dialogo tra religioni”.
Per Abdullahi Ahmed quello di Shahin è un caso politico: “Non c’è niente di fondato contro di lui, gli si contesta una frase, ma quante persone hanno detto quella frase in questi anni? C’è la libertà di espressione in Italia, ma gli stranieri sono considerati cittadini a metà e per loro i diritti non valgono alla stessa maniera”. Per Ahmed tutta la comunità musulmana di Torino è mobilitata per riportare Shahin a casa.
Anche l’associazione A buon diritto ha espresso la sua opposizione all’espulsione di Mohamed Shahin: “Le dichiarazioni rese pubblicamente durante una manifestazione, anche se considerate gravi e inopportune, peraltro subito rettificate e contestualizzate dallo stesso Shahin, non possono bastare per motivare un’espulsione. Sulla pericolosità sociale e sui rapporti e sui fatti che gli vengono contestati, Shahin ha già risposto e deve poter continuare a rispondere nelle sedi opportune, in Italia”.
Attiviste e attivisti egiziani in esilio raccolti nella sigla Egyptwide for human rights hanno promosso una campagna per la liberazione di Shahin. Gli attivisti hanno scritto una lettera diretta alle istituzioni in cui denunciano che l’imam di Torino è stato sottoposto a un provvedimento sproporzionato. “Ci sono delle anomalie nel procedimento di espulsione, inoltre il rimpatrio in Egitto rappresenta per l’imam un rischio per la sua incolumità, perché viene da una famiglia di oppositori politici”, spiega Sayed Nasr di Egyptwide. “L’Egitto non può essere considerato un paese sicuro per nessuno, tanto meno per chi si è schierato apertamente contro il governo”.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Frontiere.
|
Iscriviti a Frontiere |
La newsletter sulle migrazioni. A cura di Annalisa Camilli. Ogni lunedì.
|
| Iscriviti |
|
Iscriviti a Frontiere
|
|
La newsletter sulle migrazioni. A cura di Annalisa Camilli. Ogni lunedì.
|
| Iscriviti |
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it