Dopo l’insediamento di Trump si è parlato molto del suo rapporto con Elon Musk, ma in questi mesi è stata un’altra persona, un altro imprenditore, ad avere l’attenzione del presidente: Jensen Huang, fondatore e amministratore delegato della Nvidia, azienda che produce i chip più avanzati in circolazione. Un’alleanza che in poco tempo è diventata imprescindibile per entrambi, per via di un intreccio d’interessi che sta ridefinendo la strategia tecnologica e diplomatica degli Stati Uniti.
La biografia di Huang somiglia a quelle di tanti altri immigrati che hanno trovato fortuna negli Stati Uniti e hanno finito per ripagare con gli interessi la “magnanimità” del governo. È nato a Taiwan, figlio di un ingegnere chimico e di un’insegnante. La famiglia si è trasferita in Thailandia quando lui aveva 5 anni ma poco dopo i genitori, preoccupati per i disordini politici nel paese, hanno mandato lui e il fratello maggiore negli Stati Uniti.
Alla fine la famiglia si è riunita e Huang è cresciuto alla periferia di Portland, in Oregon. All’inizio degli anni ottanta, dopo essersi laureato in ingegneria elettrica all’Oregon State (che all’epoca non aveva un corso di studi in informatica), ha trovato lavoro all’Advanced Micro Devices, cugina povera del gigante dei chip Intel. Nel 1993 si è messo in proprio per fondare la Nvidia, specializzata in schede grafiche per videogiochi. La svolta è arrivata quando Huang ha deciso di puntare su unità di elaborazione grafica (Gpu) capaci di eseguire molti calcoli in parallelo, un’architettura che poi si sarebbe rivelata perfetta per addestrare reti neurali complesse alla base dell’intelligenza artificiale.
Il rapporto fra Trump e Huang non era partito con il piede giusto. L’imprenditore non aveva molta familiarità con la politica di Washington e i suoi tentativi di bloccare le restrizioni sulla vendite di chip alla Cina sono stati respinti. Le cose sono cambiate quando Huang ha cominciato a parlare l’unica lingua che Trump conosce davvero, quella dei soldi: ad aprile la Nvidia ha annunciato che avrebbe investito 500 miliardi di dollari negli Stati Uniti per costruire impianti e rafforzare la produzione nazionale di chip. Quel gesto ha attirato l’attenzione del presidente, che ha cominciato a vedere l’azienda e il suo proprietario come alleati imprescindibili per il suo piano di rilancio dell’industria statunitense e, in un secondo momento, per la sua strategia di ridefinire le alleanze internazionali.
Da allora il rapporto si è fatto sempre più stretto. Huang ha accompagnato Trump in missioni all’estero e ha favorito vendite di chip e tecnologie per più di 200 miliardi di dollari in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Trump presenta ormai l’azienda come il vero simbolo della sua politica industriale, cosa che ne ha fatto crescere vertiginosamente il valore: un mese fa la Nvidia è diventata la prima compagnia della storia a valere più di cinquemila miliardi di dollari, e giorni fa ha annunciato ricavi per il terzo trimestre superiori alle attese (57 miliardi di dollari). I suoi chip, che rendono possibile la maggior parte dei progetti di ia, sono diventati una delle principali leve diplomatiche di Trump.
In diversi negoziati — dai colloqui tra Armenia e Azerbaigian fino all’ingresso del Kazakistan negli accordi di Abramo in Medio Oriente — gli affari su data center, collaborazioni sull’ia e accesso alla tecnologia della Nvidia si sono intrecciati con le questioni politiche. Una strategia che per certi versi ricorda quella adottata degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, quando Washington offriva tecnologie nucleari per consolidare la sua influenza nel mondo.
Rischio di sistema
Ma la crescita della Nvidia e il suo nuovo peso politico generano inevitabilmente delle tensioni. Huang ha sempre sostenuto un approccio più morbido verso la Cina, convinto che limitare le esportazioni di chip avanzati finisca per danneggiare gli stessi Stati Uniti: un blocco troppo rigido, secondo lui, spingerebbe Pechino ad accelerare ricerca e produzione domestica, riducendo nel lungo periodo il vantaggio americano. Quando Trump ha lasciato intendere di voler vendere a Pechino la nuova generazione di chip Nvidia, i Blackwell, il congresso e l’apparato di sicurezza nazionale hanno reagito duramente, temendo che una simile apertura potesse rafforzare in modo decisivo le capacità militari e tecnologiche della Cina, e lo hanno costretto a fare marcia indietro.
Un rischio ancora più grande riguarda la stabilità dell’economia statunitense e mondiale. La bolla dell’intelligenza artificiale ha trasformato la Nvidia nel perno dell’intera economia tecnologica globale. “Gli Stati Uniti sono ormai una sorta di ‘stato Nvidia’”, hanno scritto Matteo Wong e Charlie Warzel sull’Atlantic. Mentre i data center si moltiplicano e assorbono energia pari a quella consumata da intere città, quasi tutto il boom si regge sulle Gpu dell’azienda. Tre quarti dei guadagni dell’indice azionario S&P 500 legati all’ia derivano da imprese che dipendono dai suoi chip, e “l’ia contribuisce alla crescita del pil statunitense più di tutti i consumi messi insieme”.
Questa concentrazione espone l’economia mondiale a una fragilità strutturale. I data center richiedono investimenti enormi, finanziati con strumenti sempre più complessi e rischiosi, mentre i ricavi dell’ia restano modesti e incerti: OpenAI, proprietaria di ChatGpt, finora ha perso più di quanto abbia guadagnato, Microsoft e Meta hanno registrato miliardi di costi senza ritorni proporzionati.
Wong e Warzel spiegano che i prodotti Nvidia diventano obsoleti ogni pochi anni e questo obbliga l’intero sistema a continui reinvestimenti. In caso di crisi – un rallentamento dell’ia, un crollo dei titoli del settore tecnologico o semplicemente una riduzione nel ritmo di innovazione dei chip – potrebbero finire travolti data center, fondi d’investimento, aziende e perfino i risparmiatori, con effetti paragonati dagli analisti alla crisi del 2008.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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