Intorno alle 2.30 di notte del 7 maggio 1945, il giornalista dell’agenzia Associated Press (Ap), Edward Kennedy, assisté all’evento più importante della sua vita e forse della vita di chiunque altro nel ventesimo secolo. Di fronte a lui, in una stanza a forma di L in una vecchia scuola di Reims, in Francia, i gerarchi della Germania nazista stavano firmando la resa incondizionata del loro paese.
La seconda guerra mondiale era terminata, ma Kennedy e gli altri giornalisti ricevettero dalla censura militare l’incredibile ordine di non diffondere la notizia. Il leader sovietico Stalin voleva una seconda cerimonia di firma, questa volta a Berlino. Non si poteva rischiare di irritarlo annunciando che la resa era già avvenuta.
Kennedy tornò a Parigi sapendo che aveva per le mani quella che poteva essere considerata la migliore notizia possibile. Guardando i parigini riempire le strade di primo mattino dai finestrini dell’aereo, Kennedy si sentiva amareggiato: “Che notizie avevamo per loro e per i lavoratori di tutto il mondo! Notizie che gli avrebbero fatto abbandonare i macchinari e festeggiare dopo anni di preoccupazioni e sofferenza”.
Kennedy trascorse ore nella sua stanza d’albergo, rimuginando su cosa fare. Poi, poco dopo le 14, la Bbc riferì che il governo tedesco aveva annunciato via radio la sua resa. Kennedy decise che non era più vincolato alla promessa fatta. Passando per l’ufficio della Ap di Londra per evitare la censura, inviò un resoconto dettagliato della resa a cui aveva assistito. Negli Stati Uniti, il New York Times pubblicò la sua storia in prima pagina, la mattina del 9 maggio.
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Guerra Cos’è la guerra e perché non vogliamo che si ripeta. Con Davide Maria De Luca.
Kennedy pagò caro la sua scelta. Le sue credenziali militari furono ritirate e fu licenziato dalla Associated Press, che avrebbe chiesto scusa solo nel 2012. Ma Kennedy non rimpianse mai il suo gesto. Conosceva perfettamente una realtà ovvia, che nessuna considerazione di opportunità poteva nascondere, cioè che il momento migliore delle guerre è quando finiscono.
Al gesto che nella storia ha sancito la fine della maggioranza dei conflitti armati grandi e piccoli è dedicato “Resa” il quinto e ultimo episodio di Guerra.
Fino all’ultimo uomo
La resa ha molti nemici: leader politici, generali, patrioti e nazionalisti che preferirebbero vedere i loro connazionali e commilitoni combattere “tenendo l’ultima cartuccia per se stessi”, piuttosto che arrendersi all’orribile nemico.
Troviamo una traccia di questo atteggiamento perfino negli scritti del poeta Francesco Petrarca, che nella lirica Italia mia, lamenta il prototipo del soldato mercenario all’epoca impiegato dagli stati italiani, un personaggio inaffidabile “ch’alzando il dito colla morte scherza”, cioè che nel cuore del combattimento è sempre pronto a offrire la sua resa con un semplice gesto.
La resa non è mai stata tanto destata quanto nelle guerre totali del novecento. Nell’agosto del 1941, Stalin approvò l’ordine numero 270, che vietava la resa e che costò il gulag a centinaia di migliaia di prigionieri sovietici rimpatriati dopo la fine della guerra. Hitler ordinò decine di volte di resistere fino all’ultimo uomo e l’intera strategia tedesca negli ultimi mesi di guerra aveva come unico punto “combattere fino alla morte”.
Durante i combattimenti in Africa, nella seconda guerra mondiale, i britannici concessero in un numero esorbitante di casi l’onore delle armi ai loro nemici italiani per spingerli ad arrendersi, gli concedevano cioè il diritto di sfilare un’ultima volta con le armi in pugno prima di andare in prigionia. Mussolini commentò acidamente il fatto che soldati e generali italiani erano felici di arrendersi in cambio di quella semplice cerimonia.
Ma anche il suo nemico Churchill era irritato dall’apparente natura cavalleresca della guerra nel deserto, dove gli sembrava che la facilità con cui veniva concessa la resa avesse emasculato i suoi soldati.
La resa di Breda
D’altro canto, la resa – quella dei nemici – è stata altrettanto spesso celebrata non solo come come il trionfo sull’avversario umiliato, ma anche come un momento di nobile riconciliazione, un gesto che si compie tra parti degne del reciproco rispetto.
La resa di Breda, del pittore spagnolo Diego Velázquez, è forse la più famosa rappresentazione pittorica di una resa. Il dipinto, terminato nel 1635, è diviso in due metà. In quella più alta, lo sfondo, è dominato dalla distruzione causata dallo scontro: il cielo azzurro è solcato dalle colonne di fumo scuro che si alzano dai resti anneriti del campo di battaglia.
In quella inferiore, dominata da un’atmosfera calma, quasi di cameratismo, c’è l’atto della resa vero e proprio. Nella metà destra vediamo, prima di tutto, un grosso cavallo dipinto da tergo (grande divertissement dei pittori europei dai tempi di Pisanello) e dietro di lui la schiera degli spagnoli vincitori, sormontati da una fila di lance ordinate che trasmette l’idea della loro superiorità militare (ed è anche l’origine del secondo nome con cui il dipinto è conosciuto: Le lance).
Sul lato sinistro, gli olandesi appaiono una massa sconfitta e disordinata e perfino le loro armi sono più piccole di quelle spagnole. Il comandante Giustino di Nassau è piegato in avanti mentre porge le chiavi della città al nemico, il generale genovese Ambrogio Spinola, anche lui piegato leggermente in avanti, che, con un braccio, sembra invitare Giustino a rialzarsi. Sul viso ha un’espressione sorridente, come chi incontra dopo lungo tempo un vecchio compagno.
Un luogo senza scampo
Nel giugno del 2023, l’esercito ucraino ha diffuso un breve video in cui si vedeva un soldato russo arrendersi a un drone. Si tratta di un caso isolato, in cui il pilota del drone ha deciso di prendersi il disturbo di guidare il soldato russo fino alle linee ucraine e in cui, per una fortunata serie di coincidenze, il soldato stesso è riuscito ad arrivare vivo.
Nella maggior parte dei casi, i soldati russi e ucraini sanno che provare ad arrendersi a un drone è inutile. La killing zone, quella sotto il fuoco dei combattenti, nel campo ucraino ha ormai raggiunto una profondità di venticinque chilometri. Un’area dove si può finire bersagliati da un drone in qualunque istante e dove correre o alzare le mani al cielo è del tutto inutile per cercare di salvarsi.
Lo storico militare John Keegan, nel suo libro Il volto della battaglia, è autore di un’osservazione chiave per comprendere la guerra moderna. Il campo di battaglia è diventato un luogo molto più pericoloso e ostile che in qualsiasi altro tempo. E nei moderni eserciti di massa non solo le motivazioni per combattere sono inferiori al passato, ma i soldati operano in modo così disperso che controllarli è quasi impossibile.
A tenere i soldati nelle loro trincee c’è quindi soprattutto il fatto che arrendersi è sempre più difficile. Nei campi di battaglia solcati da anonimi proiettili di artiglieria e nuvole di gas tossico, i rischi per la vita del soldato non sono legati alla sua volontà di combattere, ma al semplice fatto che si trova in un luogo mortale da cui scappare è quasi impossibile. Oggi più che mai.
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