Tra tutti i fronti aperti da Trump per cercare di piegare le istituzioni e la società, quello che riguarda l’informazione è forse il più importante. Se si pensa a quanto siano centrali storicamente il pluralismo e la libertà d’informazione nel discorso pubblico statunitense, è impressionante la velocità con cui il presidente e i suoi alleati stanno creando le condizioni per controllare un pezzo molto rilevante del sistema mediatico.
Come in un puzzle, i pezzi stanno andando al loro posto un po’ alla volta. Alcuni si sono sistemati ancora prima delle elezioni, quando i proprietari del Washington Post e del Los Angeles Times (Jeff Bezos e Patrick Soon-Shiong) hanno vietato alle redazioni di prendere posizione a favore di Kamala Harris, la candidata democratica.
Altri subito dopo l’insediamento, quando la Casa Bianca ha preso una serie di decisioni contro alcune grandi testate: il New York Times, Nbc news, Politico e la National public radio (Npr) hanno perso le loro credenziali al Pentagono, sostituite da giornali e siti favorevoli a Trump, tra cui One America News Network, Breitbart News e New York Post; l’Associated Press è stata esclusa da alcuni eventi stampa presidenziali per non aver accettato di usare la dicitura “golfo d’America” invece di “golfo del Messico”; sono stati tagliati i fondi federali ai media pubblici, in particolare Npr e Pbs, accusati di avere pregiudizi contro il presidente; è stata smantellata Voice of America, storica emittente internazionale nata tra gli anni quaranta e cinquanta per rispondere alla propaganda nazista e a quella sovietica.
Poi ci sono le tante cause contro altre testate, dal New York Times al Wall Street Journal, che pur poggiando su basi legali molto fragili si sono rivelate un’arma efficace per piegare i gruppi che, per motivi economici e interessi strategici, non vogliono mettersi contro il presidente. L’emittente Abc News ha accettato di versargli 15 milioni di dollari per archiviare le denunce contro il presentatore George Stephanopoulos, mentre la Paramount, azienda che controlla l’emittente Cbs, ha pagato 16 milioni di dollari a Trump per risolvere una causa riguardante un’intervista con Kamala Harris (scelta condizionata dalle trattative per vendere Paramount a una società concorrente, Skydance, una transazione che aveva bisogno dell’approvazione dell’amministrazione). Infine ci sono le minacce di revoca delle licenze televisive, come nel caso recente che ha riguardato la Disney per lo show del comico Jimmy Kimmel.
Come su tante altre cose che riguardano l’amministrazione Trump, la raffica di annunci e attacchi lascia disorientati, e si fa fatica a vedere il quadro generale. Ma un’altra notizia arrivata in questi giorni, gli apparenti passi avanti tra la Casa Bianca e la Cina sulla questione TikTok, aiuta a mettere un po’ più a fuoco la figura finale del puzzle. Prima serve un breve riassunto di una vicenda al centro delle tensioni tra Pechino e Washington.
Da anni gli Stati Uniti sono preoccupati per la diffusione nel paese di TikTok, un social network di proprietà dell’azienda cinese ByteDance. È stato proprio Trump, durante il suo primo mandato, a lanciare l’allarme, firmando un ordine esecutivo che metteva in guardia gli statunitensi sul potenziale utilizzo di TikTok come pericoloso strumento di sorveglianza. All’epoca sosteneva che la “raccolta di dati dell’app rischia di consentire al Partito comunista cinese di accedere alle informazioni personali e riservate degli statunitensi, consentendo potenzialmente alla Cina di tracciare la posizione dei dipendenti federali e degli appaltatori, creare dossier di informazioni personali a scopo di ricatto e condurre spionaggio aziendale”.
Un timore condiviso anche dai politici democratici, tanto che nel 2024 Joe Biden ha firmato il cosiddetto “TikTok ban”, una legge, approvata dal congresso a grande maggioranza, che obbligava ByteDance a vendere la piattaforma a un acquirente non legato al governo cinese entro il 19 gennaio 2025 (legge confermata dalla corte suprema pochi giorni prima della scadenza del bando). Nel frattempo però Trump aveva cambiato idea, e appena tornato alla Casa Bianca ha firmato vari decreti per ritardare l’entrata in vigore del blocco e guadagnare tempo per raggiungere un accordo con le autorità cinesi e trovare investitori.
È sempre stato chiaro che la giravolta di Trump avesse a che fare con le potenzialità di TikTok a fini di propaganda (durante la campagna elettorale gli ha permesso di allargare i consensi tra i giovani), ma l’accordo di cui si sta parlando in questi giorni rivela uno scenario molto più ampio.
Secondo Axios, il piano prevederebbe che ByteDance crei una copia dell’algoritmo di TikTok, che verrebbe poi concessa in licenza a una nuova joint venture controllata da un gruppo di investitori, tra cui la società di private equity Silver Lake, l’azienda di software Oracle e MGX, fondo d’investimento del governo di Abu Dhabi.
Il coinvolgimento di MGX sarebbe l’ultimo esempio di come gli Emirati Arabi Uniti stiano usando le loro grandi risorse finanziarie per aiutare Trump ed entrare nelle sue grazie: negli ultimi mesi i rappresentanti dello stato del Golfo si sono impegnati a investire 1.400 miliardi di dollari nell’economia statunitense nel prossimo decennio, e MGX ha detto di aver depositato due miliardi di dollari nella start-up di criptovalute fondata dalla famiglia Trump. In cambio Abu Dhabi, che sta cercando di diventare una potenza nell’ambito dell’intelligenza artificiale, si aspetta che la Casa Bianca allenti le restrizioni imposte dall’amministrazione Biden per l’acquisto di chip.
La figura chiave in questa storia è Larry Ellison, l’amministratore delegato della Oracle, che quest’estate ha superato temporaneamente Elon Musk come persona più ricca del mondo (con un patrimonio personale di 383 miliardi di dollari). È un sostenitore di lunga data di Trump.
Suo figlio, David, ha recentemente fuso la sua società di produzione, la Skydance Media, con la Paramount; dopo che la Federal communications commission (un’agenzia governativa statunitense che regola il settore delle comunicazioni) ha approvato la fusione, Trump ha dichiarato pubblicamente che l’azienda di David Ellison aveva accettato di dare al presidente venti milioni di dollari in pubblicità gratuita. A quanto pare Ellison sta per concludere un accordo per nominare Bari Weiss, giornalista conservatrice e fondatrice di The Free Press, come direttrice o co-presidente della Cbs News. Si dice anche che stia preparando un’offerta per la Warner Bros/Discovery, proprietaria della Hbo e della Cnn, due delle principali emittenti via cavo del paese.
“Due voci giornalistiche indipendenti, la Cbs News e la Cnn, potrebbero presto essere unite in qualcosa di potenzialmente quasi irriconoscibile, qualcosa di simile a ciò che viene servito quotidianamente da Fox News, emittente della famiglia Murdoch”, ha scritto il giornalista economico William D. Cohan sul New York Times. Immaginate tutto questo insieme non solo alla rete Murdoch, ma anche alla trasformazione del Washington Post sotto la spinta del proprietario Jeff Bezos, alla svolta pro-Trump di Mark Zuckerberg e al controllo di Elon Musk su X.
Il governo e i suoi alleati avrebbero il controllo su una parte enorme del panorama informativo per i giovani e gli anziani statunitensi, comprendendo una quota senza precedenti di televisione, mezzi d’informazione digitali e social media, oltre a ciò che resta della carta stampata. La vastità dei loro imperi li renderebbe dipendenti dalla buona volontà di regolatori sempre più politicizzati della Federal trade commission (l’agenzia governativa nata per promuovere la tutela dei consumatori) e del dipartimento di giustizia, il che significa che avrebbero potenti incentivi per garantire che il loro pubblico ricevesse contenuti favorevoli a Trump.
Non solo: questo tipo di controllo sull’informazione darebbe all’amministrazione Trump il più efficace degli strumenti per colpire chiunque consideri un oppositore. Sull’Atlantic David Karpf ha spiegato che tutte le piattaforme di social media raccolgono dati su ciò che guardiamo, ci piace, condividiamo e commentiamo, e sono estremamente abili a creare “look-alike models”, cioè modelli statistici che individuano persone con caratteristiche simili a un gruppo di riferimento, così da poter raggiungere altri potenziali utenti che “somigliano” a quelli esistenti. “Questo è stato il grande passo avanti di Facebook nel campo della pubblicità dieci anni fa: la campagna di Trump del 2016 ha capito come acquisire donatori mostrando annunci pubblicitari a persone con gusti e preferenze sui social media simili a quelli della base esistente di sostenitori del movimento Make America great again”.
“Cosa succede”, si chiede Karpf, “se il motore di raccolta dati e profilazione dei social media non viene usato per vendere prodotti o promuovere la retorica politica ma per profilare i nemici?”. Giorni fa Trump ha firmato un ordine esecutivo che definisce gli “antifa” un’organizzazione terroristica (in realtà gli antifa non sono nemmeno un’organizzazione). Immaginate se l’amministrazione chiedesse ai nuovi gestori di TikTok d’individuare una serie di mezzi d’informazione di estrema sinistra e poi generasse elenchi di utenti dei social media che visualizzano, condividono e commentano i contenuti di quei media. “Oppure immaginate se chiedesse a Ellison e ai suoi collaboratori di identificare gruppi di persone che guardano e condividono video contro gli agenti dell’immigrazione, criticano i centri di detenzione o proteggono gli immigrati senza documenti. Questi modelli sono uno strumento molto pericoloso nelle mani di uno stato autoritario in erba”.
Lo stesso Larry Ellison è tra i più entusiasti sostenitori delle potenzialità delle nuove tecnologie nel settore della sorveglianza. Tempo fa diceva agli investitori della Oracle: “I cittadini si comporteranno nel modo migliore perché registriamo e riportiamo costantemente tutto ciò che succede”. Ha anche detto che i governi dovrebbero cercare di “unificare” il maggior numero possibile di dati per consentire l’utilizzo di tali informazioni da parte dell’intelligenza artificiale, cosa che l’amministrazione Trump sta cercando di fare attraverso il dipartimento per l’efficienza del governo (Doge).
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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