Dopo ogni attentato politico, molti commentatori statunitensi provano a scongiurare il pericolo di uno scivolamento verso il caos ricordando i momenti in cui il paese ha evitato il baratro scegliendo l’unità. Uno su tutti: il discorso di Robert Kennedy dopo l’omicidio di Martin Luther King, nel 1968. Lo stesso copione si è ripetuto dopo la morte dell’attivista di destra Charlie Kirk, ucciso il 10 settembre mentre parlava in un’università dello Utah. Oggi però sembra che la società statunitense somigli più a Preston Brooks che a Robert Kennedy.
Brooks era un deputato della South Carolina negli anni prima della guerra civile. Come tanti dei suoi colleghi di partito e conterranei, era proprietario di schiavi e non aveva intenzione di privarsene. Il 22 maggio del 1856 Charles Sumner, un senatore abolizionista del Massachusetts, prese la parola per uno dei suoi consueti discorsi contro gli schiavisti, attaccando direttamente un cugino di Brooks. Il deputato reagì assalendo Sumner e picchiandolo con un bastone con il pomello in metallo; continuò fino a farlo svenire, fermandosi solo dopo che il bastone si era rotto.
Sumner rimase ferito in modo grave e gli ci vollero anni per riuscire a svolgere anche le attività più semplici. Brooks non si scusò mai per il suo comportamento, anzi continuò a vantarsene. Cosa ancora più inquietante, i suoi sostenitori al congresso cominciarono a usare frammenti del bastone rotto, trasformandoli in anelli che si mettevano al collo, in una macabra dimostrazione di solidarietà. Brooks non solo fu rieletto, ma cominciò anche a ricevere in regalo dei bastoni su cui c’erano iscrizioni come “colpiscilo di nuovo” e “ottimo lavoro”.
Con il tempo il racconto di quell’evento cambiò: il gesto di Brooks fu ricordato per la sua brutalità, mentre Sumner fu celebrato per la sua valorosa ostinazione antischiavista. Ma la narrazione si è ribaltata di nuovo quasi 170 anni dopo, il 6 gennaio del 2021, quando decine di sostenitori di Trump hanno fatto irruzione con la forza nel congresso, gironzolando trionfanti tra le sale piene di dipinti. Uno di loro è stato fotografato mentre, con la bandiera confederata in spalla, passava davanti a un quadro che raffigurava il povero Sumner.
Questo cortocircuito, apparentemente lontano dall’omicidio di Kirk, ci dice in realtà varie cose sul momento attuale degli Stati Uniti. La principale è che quando la polarizzazione diventa estrema, il livello di tolleranza e assuefazione per la violenza politica si alza, al punto che i rituali appelli all’unità, a fare un passo indietro – “in America non c’è spazio per la violenza” –, sono destinati a cadere nel vuoto e sembrano ogni volta più goffi.
Quello scherzo della storia inoltre ci ricorda una volta di più la tragica eredità del 6 gennaio 2021. Se per un po’ si è pensato che quell’evento potesse portare a una correzione di rotta, a una reazione collettiva di disgusto contro la violenza, oggi sappiamo con certezza che ha causato l’effetto opposto. La decisione di Trump di concedere la grazia a tutte le persone condannate per la rivolta, presa il primo giorno di mandato, ha trasmesso alla società un messaggio preciso: la violenza è il modo in cui si risolvono le divergenze politiche negli Stati Uniti. Come ha scritto Adrienne LaFrance, una delle giornaliste che hanno seguito meglio il tema negli ultimi anni, “il presidente ha chiarito al popolo americano che quando si vuole ottenere ciò che si vuole, lo si può fare in qualsiasi modo: con una pistola belga, un bastone, l’estremità smussata di un’asta di bandiera, un fucile”. Gli Stati Uniti non sono diventati un paese violento in questi anni – la loro storia è costellata di omicidi molto più gravi di quello di Kirk – ma in questi anni gli argini sono crollati. I segnali sono dovunque.
Nel giugno del 2022 un uomo armato di pistola e coltello che aveva dichiarato di voler uccidere Brett Kavanaugh, giudice della corte suprema, è stato arrestato fuori dalla sua casa nel Maryland. A luglio dello stesso anno un uomo con una pistola carica è stato fermato fuori dalla casa di Pramila Jayapal, deputata del Partito democratico; la donna aveva sentito qualcuno fuori gridare “Vaffanculo, troia!” e “Puttana comunista!”. Qualche giorno dopo un uomo che portava un oggetto affilato è saltato sul palco di un comizio nello stato di New York e ha cercato di aggredire il candidato repubblicano alla carica di governatore. Ad agosto, subito dopo che gli agenti federali hanno portato via scatoloni di documenti dalla tenuta di Trump a Mar-a-Lago, in Florida, un uomo con indosso un giubbotto antiproiettile ha cercato di irrompere nella sede dell’Fbi di Cincinnati: è stato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia. A ottobre a San Francisco un uomo ha fatto irruzione nella casa di Nancy Pelosi, in quel momento presidente della camera, e ha aggredito il marito di 82 anni con un martello, causandogli una frattura cranica. Nel gennaio 2023 un ex candidato repubblicano alle elezioni statali nel New Mexico, che si definiva “re del Maga”, è stato arrestato per il presunto tentato omicidio di funzionari democratici locali in quattro sparatorie separate. In una delle sparatorie, tre proiettili hanno attraversato la camera da letto della figlia di dieci anni di un senatore statale mentre dormiva.
Nel 2024 ci sono stati due tentativi di omicidi contro Trump, e l’elenco del 2025, ancora provvisorio, è lunghissimo: ad aprile un uomo ha cercato di uccidere il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, dando fuoco alla sua casa; a maggio Luigi Mangione, un uomo di 27 anni, ha ucciso l’amministratore delegato di un’importante compagnia di assicurazioni sanitarie; pochi giorni dopo sono stati uccisi due impiegati dell’ambasciata israeliana a Washington; a giugno in Minnesota un uomo ha ucciso a colpi di pistola una deputata statale del Partito democratico e suo marito; lo stesso mese c’è stato l’attacco con bombe molotov contro un gruppo di persone che chiedeva la liberazione degli ostaggi israeliani in Colorado, che ha causato la morte di una donna di 82 anni, e poi il tentato rapimento del sindaco di Memphis. A tutto questo si aggiungono le tante situazioni che non fanno notizia perché meno gravi, come il numero crescente di funzionari eletti che decide di abbandonare la politica a causa delle minacce e delle molestie.
È inevitabile, dopo questo elenco, chiedersi due cose: quanto ancora le cose possono peggiorare? Come se ne esce?
Per provare a rispondere conviene prendere le distanze, per quanto possibile, dai post sui social e dai commenti a caldo sui giornali e ascoltare cosa dicono le persone che da anni studiano la violenza politica negli Stati Uniti. La maggior parte di loro pensa che, nonostante la forte polarizzazione politica e la radicalizzazione sempre più preoccupante di certi ambienti, il paese non stia andando verso una seconda guerra civile. Mary McCord, ex procuratrice ed esperta di sicurezza e terrorismo, l’ha messa così parlando con LaFrance: “Il fatto è che la gente vuole mangiare fragole a febbraio! Vuole uscire dopo il lavoro e bere qualche birra. Vuole andare alle partite dei figli nel fine settimana. I discorsi sulla guerra civile sono solo questo: discorsi. Non vedo nessuna parte significativa della popolazione che sia minimamente interessata a questo”.
McCord invita anche a soppesare il ruolo dei social media quando si cerca di trovare una correlazione diretta tra le manifestazioni pubbliche di odio e i pericoli reali: “C’è un piccolo gruppo che è incredibilmente attivo sui social network e nella tv via cavo, e poi c’è tutto il resto della popolazione”.
È indubbiamente vero, ma la cosa è meno rassicurante di quanto sembri. Le storie di Thomas Crooks, il ventunenne che a luglio del 2024 ha provato a uccidere Trump, e di Tyler Robinson, il ventiduenne sospettato di aver ucciso Charlie Kirk, mostrano che negli ultimi anni è diventato più facile per certe persone, quasi sempre molto giovani, passare dalla tastiera al fucile. Questi estremisti, che si radicalizzano online e hanno ideologie confuse e contraddittorie, stanno creando una nuova forma di terrorismo interno. Un terrorismo difficile da affrontare e contenere proprio perché è più “disorganizzato e casuale”, ma anche perché una volta messo in atto la sua risonanza è amplificata dagli algoritmi dei social media, che alimentano richieste ancora più forti e brutali di ulteriore violenza. Cosa ancora più importante, negli Stati Uniti di oggi questo nuovo estremismo può prosperare perché non incontra quelle barriere civili e sociali che in teoria dovrebbero arginarlo, smorzarne la forza e renderlo inaccettabile agli occhi della comunità.
Gli esperti avvertono che in tempi di alta sfiducia verso le istituzioni, di polarizzazione politica e tolleranza verso la violenza, bastano poche persone per seminare il caos e spostare ulteriormente la società verso quella che LaFrance definisce “anarchia al rallentatore”. Le fragole continuano ad arrivare sugli scaffali a febbraio, mentre aumentano le persone uccise per motivi politici. In altre parole, il problema principale non sono i pochi individui radicalizzati ma la maggioranza che non si indigna più di tanto o addirittura esulta davanti agli omicidi.
In questi giorni tante persone online hanno deriso o festeggiato la morte di Kirk, mentre la destra ha parlato di “guerra” o di “vendetta”. Una dimostrazione pratica dei dati raccolti in questi anni in decine di studi e ricerche. Secondo un sondaggio recente pubblicato dal New York Times, il 39 per cento dei democratici è d’accordo con l’idea di rimuovere Trump dal potere anche usando la forza, mentre un quarto dei repubblicani pensa che il presidente sia giustificato a usare l’esercito per reprimere le proteste contro il suo programma politico. In questo clima la maggior parte delle persone interpreta la demonizzazione degli avversari e i toni incendiari come normale dialettica tra partiti, e questi messaggi, ha scritto il Wall Street Journal in un editoriale, “arrivano anche a persone disturbate che sono meno capaci di separare la retorica dalla realtà”.
Venuto meno l’argine del disgusto collettivo di fronte alla violenza, in questi anni abbiamo visto crollare in modo ancora più plateale il secondo argine, quello della separazione tra il mondo politico e gli ambienti sovversivi. Se un tempo esisteva un “firewall” tra estremisti e istituzioni, oggi quella barriera è crollata. Dopo aver perso le elezioni del 2020, Trump ha incoraggiato i suoi sostenitori a colpire gli avversari (“tenetevi pronti”), cosa che ha reso più difficile isolare i violenti. E dopo essere tornato al potere ha fatto un passo ulteriore, usando le forze dello stato per accontentare e alimentare gli istinti più pericolosi del suo elettorato. Dopo la morte di Kirk ha chiarito che non ha nessun interesse a unire il paese e ha promesso di dare la caccia ai radicali di sinistra (ignorando il fatto che gli estremisti di destra sono ancora responsabili della maggior parte degli attacchi terroristici nel paese).
Mentre prosegue la militarizzazione delle forze dell’ordine – pochi giorni fa Trump ha dichiarato “guerra” a Chicago dopo aver inviato truppe della guardia nazionale a Los Angeles e Washington – la piaga della violenza politica si mescola con la minaccia della repressione. È difficile immaginare uno scenario in cui le cose vanno a finire bene.
Ha scritto LaFrance: “Basta una conoscenza superficiale della storia statunitense per sapere che ai periodi di violenza segue quasi sempre una repressione violenta da parte dello stato e che la repressione comporta quasi sempre una svuotamento delle libertà fondamentali. Il discorso di Donald Trump del 10 settembre sull’omicidio di Kirk, in cui il presidente ha attaccato i suoi nemici politici, dovrebbe spaventare tutti i cittadini statunitensi che rifiutano la violenza, hanno a cuore le libertà civili e non amano l’ingerenza del governo”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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