Fino alla scorsa primavera non conoscevo il termine FemTech. Ora ne so qualcosa di più grazie al primo Osservatorio FemTech permanente in Italia, fondato da Tech4Fem con l’obiettivo di mappare, misurare e raccontare le aziende e le startup che operano nel settore della salute e del benessere femminile. Tech4Fem è la prima associazione non profit in Italia dedicata alla crescita delle female technologies (FemTech). Si tratta di innovazioni riguardanti condizioni e patologie che sono specifiche delle donne, che colpiscono le donne diversamente dagli uomini oppure le colpiscono in modo sproporzionato rispetto agli uomini. Il settore è giovane, visto che è nato nel 2016 grazie all’imprenditrice danese Ida Tin, fondatrice dell’app per il monitoraggio delle mestruazioni Clue e ideatrice del termine FemTech. Oggi include tredici segmenti, combinando dispositivi medici, diagnostica, software, app, prodotti e servizi studiati per esigenze specifiche, come la salute riproduttiva e la menopausa.
Nel giro di una decina d’anni il FemTech ha registrato una crescita significativa. Alcune stime parlano di un mercato nell’ordine di 10–30 miliardi di dollari a seconda della regione e del segmento, con tassi di crescita annui compresi tra il 15 e il 18 per cento fino al 2030–2032. Altri studi calcolano cifre intorno ai 30–50 miliardi di dollari e prevedono il superamento della soglia dei cento miliardi entro il 2030.
Ne parlava già nel 2021 l’Economist, che citava la relaxina, un ormone prodotto dalle donne (dalle ovaie, dalla mammella e dalla placenta durante la gravidanza), ma in piccole quantità anche dagli uomini (dalla prostata). Il suo ruolo più noto è quello di rilassare i legamenti e le articolazioni, preparando il bacino al parto e facilitando la nascita del bambino ma, agendo ancora per un anno dopo il parto, rende le neomamme più esposte a vari tipi di infortunio. Per questo nel 2019 Jessica Ennis-Hill, ex olimpionica britannica di eptatlon e mamma da cinque anni, aveva lanciato Jennis, un’app che offriva esercizi per aiutare le donne, e le mamme in particolare, a rafforzare il proprio fisico.
Tutto questo è successo per lo più lontano dall’Italia, che non è mai comparsa nelle classifiche internazionali del settore. Presto, però, potrebbe non essere più così, visto che qualcosa si muove anche nel nostro paese. Il censimento dell’Osservatorio FemTech ha individuato 92 startup e imprese attive nel settore. La maggioranza (72 per cento) è costituita da aziende di piccole dimensioni, in particolare da società a responsabilità limitata; circa il 10 per cento è ancora in fase di costituzione, mentre l’8 per cento è rappresentato da imprese individuali, spesso gestite direttamente da chi le ha fondate; il 38 per cento non ha mai fatto raccolta di finanziamenti; il 64 per cento si autofinanzia e solo il 13 per cento ha raccolto più un milione di euro; il 50 per cento fattura meno di cinquantamila euro all’anno; il 79 per cento ha almeno una donna tra i fondatori, mentre nel 21 per cento ci sono solo uomini.
I protagonisti del settore sono giovani: il 50 per cento dei fondatori ha tra i 25 e i 34 anni e il 31 per cento tra i 35 e i 44 anni, mentre solo il 19 per cento supera i 45 anni. Il 45 per cento delle aziende è stato fondato negli ultimi due anni. La distribuzione geografica mostra una forte concentrazione nel nord dell’Italia: la Lombardia ospita il 37 per cento delle realtà censite, seguita da Lazio (13 per cento), Piemonte (10 per cento), Veneto (8 per cento) e Trentino-Alto Adige (7 per cento); le regioni del centro e del sud hanno percentuali comprese tra l’1 e il 4 per cento.
Ma perché è così importante investire nelle tecnologie FemTech? Non bastano gli strumenti e i servizi offerti dalla sanità pubblica e dalle strutture private o i prodotti sviluppati dalle aziende tradizionali? La realtà è che la salute femminile non è sempre “una priorità sociale, economica e di salute pubblica”, si legge nel rapporto. La fondazione di una startup e la ricerca di finanziatori è una via per concentrarsi su problemi che riguardano specificatamente le donne.
Negli ultimi due secoli l’aspettativa di vita è passata da 30 a 73 anni, ma dietro questo dato si nasconde una disuguaglianza persistente: le donne vivono più a lungo degli uomini, eppure trascorrono il 25 per cento in più della loro vita in cattiva salute, pari a circa nove anni di vita, con limitazioni fisiche o malattie croniche. Colmare questo divario non è solo una questione di equità sanitaria: migliorare la salute femminile potrebbe restituire in media sette giorni di vita sana all’anno a ogni donna (più di cinquecento giorni in una vita) e generare un impatto economico globale di almeno mille miliardi di dollari all’anno entro il 2040.
Le differenze di genere per alcune patologie sono ormai note, ma gli investimenti in ricerche focalizzate sulle donne sono ancora irrilevanti: il 78 per cento delle persone con patologie autoimmuni è costituito da donne, ma solo il 7 per cento del budget sull’artrite reumatoide va a ricerche focalizzate sulle donne; le donne hanno il 50 per cento in più di mortalità a un anno da un attacco cardiaco rispetto agli uomini, ma solo il 4,5 per cento del budget di ricerca sulle malattie cardiovascolari viene discriminato per genere; l’Alzheimer colpisce le donne nel 66 per cento dei casi, ma gli studi clinici di genere non superano il 30 per cento.
Il divario esiste anche per problemi come la menopausa, la sindrome premestruale, l’endometriosi, il cancro cervicale e le patologie materne: rappresentano il 14 per cento del carico di malattia femminile, ma tra il 2019 e il 2023 hanno ricevuto meno dell’1 per cento dei finanziamenti globali alla ricerca. Le disparità non si fermano qui: solo il 22 per cento delle persone che partecipano alle sperimentazioni cliniche di fase 1 sono donne, e nel 64 per cento dei casi gli interventi medici analizzati mostrano minore efficacia o accesso per le donne rispetto agli uomini. Questo, unito a premi assicurativi più alti in paesi come l’India e la Svizzera e a spese non coperte da assicurazione sanitaria maggiori di 135 dollari all’anno negli Stati Uniti, aumenta ulteriormente le disparità.
L’Osservatorio FemTech permette anche di seguire progetti di ricerca e problemi che sfuggono a qualsiasi tracciamento. È il caso delle conseguenze nel lungo periodo della violenza contro le donne: è dimostrato, infatti, che come altri eventi di natura traumatica la violenza è in grado di modificare la struttura e la funzionalità del genoma. Produce delle modificazioni biologiche difficili da identificare, ma che possono essere rilevate attraverso lo studio epigenomico del dna delle donne che l’hanno subita. Sugli effetti a lungo termine si concentra un progetto guidato da Simona Gaudi, ricercatrice dell’Istituto superiore di sanità.
EpiWE (Epigenetics for WomEn, epigenetica per le donne) si propone di affrontare le conseguenze negative della violenza di genere anche nel lungo periodo, studiando i marcatori epigenetici in specifici geni associati al disturbo da stress post-traumatico. Queste informazioni, insieme alla valutazione psicologica, potrebbero offrire un nuovo strumento per protocolli terapeutici che tengano conto della differenza di genere e per attuare strategie di prevenzione degli eventuali effetti a lungo termine. Evidenze scientifiche mostrano che la violenza domestica, inducendo uno stress cronico nelle vittime, potrebbe favorire lo sviluppo di tumori, non solo durante il periodo di stress ma anche negli anni successivi.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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