In Germania il numero di pensionati che continuano a lavorare ha raggiunto un livello senza precedenti. Secondo l’istituto federale di statistica, nel 2024 erano ancora attivi più di 1,1 milioni di tedeschi che hanno almeno 67 anni. Il dato si è quadruplicato rispetto a vent’anni prima, quando era fermo a 288mila. Il fenomeno è dovuto a vari motivi. Conta il fatto che molte persone hanno bisogno di arrotondare le entrate, perché l’assegno mensile della pensione non basta. Ma tra i fattori principali c’è anche l’invecchiamento della popolazione, che sta provocando gravi carenze di personale nelle aziende.

Secondo uno studio dell’Institut für Arbeitsmarkt- und Berfusforschung (Iab), un istituto di ricerca legato all’Agenzia federale per il lavoro, “dei quasi 35 milioni di occupati in Germania più di otto milioni hanno almeno 55 anni. Questo vuol dire che nei prossimi dieci, dodici anni tutte queste persone andranno in pensione: mai nel dopoguerra in Germania c’erano stati così tanti dipendenti che stanno per lasciare il mercato del lavoro”, lasciando scoperti molti settori e specifiche mansioni.

Il modo migliore per riempire il vuoto, oltre a far restare un po’ di più al lavoro chi va in pensione, è ricorrere agli immigrati. Bloomberg riferisce che nel 2024 il numero di persone che hanno ricevuto la cittadinanza tedesca è aumentato di almeno il 50 per cento. La crescita è stata alimentata soprattutto dai siriani (83mila su 290mila totali) e dai russi (tredicimila). Il precedente governo, quello guidato dal socialdemocratico Olaf Scholz, aveva ridotto i termini per ottenere la cittadinanza, con l’obiettivo di attirare in Germania più lavoratori specializzati. In base alle nuove regole, le domande per la naturalizzazione possono essere presentate dopo cinque anni di residenza (in precedenza erano otto), che scendono a tre “per gli stranieri che si sono integrati particolarmente bene”.

L’attuale governo, guidato dal cristianodemocratico Friedrich Merz, ha annunciato di voler cancellare la procedura agevolata di tre anni e, a causa delle pressioni dovute alla crescita dei populisti xenofobi dell’Alternative für Deutschland, potrebbe introdurre altre misure restrittive. Il problema è che in questo modo si rischia di provocare danni eccessivi all’economia.

In un editoriale uscito questa settimana il quotidiano progressista Süddeutsche Zeitung scrive che chi non accetta di vivere in un paese meta di immigrazione “dovrebbe farsi un giro di notte in un pronto soccorso, dove vedrebbe all’opera un medico di origine tunisina che parla perfettamente tedesco, un’infermiera con accento russo e qualche altro operatore che proviene da un paese africano”. Oggi gli immigrati sono indispensabili, e uno studio dell’economista Martin Werding stima che se la Germania dovesse portare il numero di nuovi immigrati a duecentomila all’anno, lo stato tedesco nel lungo periodo potrebbe contare su sostanziose entrate aggiuntive, perché gli immigrati sono in media più giovani e, quando trovano lavoro, garantiscono entrate alle casse della sanità e del sistema pensionistico, oltre a rafforzare i consumi”.

La situazione tedesca non è un’eccezione in Europa né nel resto del mondo. Ne sa qualcosa l’Italia, dove è stato appena bocciato un referendum che proponeva di accelerare i tempi per gli stranieri che chiedono la cittadinanza. Da tempo nel nostro paese è in corso un pauroso declino demografico, dettato dal calo delle nascite, dall’invecchiamento della popolazione e anche dalla fuga dei giovani verso paesi che offrono lavori pagati meglio e in generale migliori condizioni di vita.

“Nel 2024”, scrive il Financial Times, il numero di nascite è diminuito del 2,6 per cento, mentre quello degli italiani che hanno lasciato il paese è aumentato. In particolare, l’anno scorso sono nati 370mila bambini, diecimila in meno del 2023 e mezzo milione in meno rispetto a dieci anni fa, registrando il sedicesimo anno consecutivo di calo. Sono stati 191mila, invece, gli italiani (molto spesso altamente istruiti) che si sono trasferiti all’estero, il 20,5 per cento in più rispetto al 2023.

Le conseguenze sono enormi, come si desume dai dati del Rapporto annuale 2025 dell’Istat. Un esempio: secondo lo studio, tra il 2011 e il 2022 è quasi raddoppiata l’incidenza dei lavoratori di almeno 55 anni rispetto a quelli con meno di 35 anni, dal 53 per cento per il complesso degli addetti (29 per cento per i soli dipendenti) al 98,6 per cento (65,5 per cento per i soli dipendenti).

I casi di paesi che sostengono la propria economia cercando di gestire al meglio bene l’immigrazione non mancano. Sul numero 1612 di Internazionale abbiamo tradotto un articolo del quotidiano francese Le Monde che parla della Spagna: la popolazione del paese iberico “cresce a un ritmo accelerato dopo la fine della pandemia di covid-19. Secondo l’istituto nazionale di statistica (Ine), il numero di abitanti ha superato i 49 milioni nel 2024, con un aumento netto di 450mila residenti, arrivati soprattutto dalla Colombia (157mila), dal Venezuela (107mila) e dal Marocco (106mila). Nel 2022 il saldo migratorio era stato di 727mila persone, nel 2023 di 642mila. In tre anni la popolazione è aumentata di 1,6 milioni”.

L’aumento della popolazione contribuisce alla forte crescita della Spagna, che “nel 2024 è stata del 3,2 per cento contro l’1,1 per cento della Francia e lo 0,2 per cento della Germania. A dicembre del 2024 il primo ministro Pedro Sánchez commentava che il 40 per cento della crescita attuale poteva essere attribuito all’immigrazione, che sostiene in particolare i consumi. L’anno scorso solo sessantamila dei 470mila posti di lavoro creati sono stati occupati da persone nate in Spagna, e l’88 per cento è andato a residenti stranieri o persone nate all’estero con doppia cittadinanza. Negli ultimi quattro anni l’immigrazione ha coperto il 70 per cento dei posti di lavoro creati”.

Il problema del declino demografico, tuttavia, non può essere affrontato solo con l’aumento delle nascite. Ma neanche l’apertura all’immigrazione potrebbe bastare, perché ormai il fenomeno non è limitato a un gruppo ristretto di paesi ricchi ma è gradualmente destinato a coinvolgere anche stati che tradizionalmente sono un bacino di manodopera per il resto del mondo. Ne ha parlato in un interessante saggio uscito sulla rivista statunitense Foreign Affairs l’economista Nicholas Eberstadt. “La popolazione mondiale”, scrive, “è destinata a diminuire per la prima volta dai tempi della Peste nera del 1300. La causa non sarà una malattia mortale, ma la scelta delle persone di fare meno figli. Con il crollo dei tassi di natalità sempre più paesi finiranno in un’era di spopolamento pervasiva e indefinita, un fenomeno che peserà sull’intero pianeta”.

Secondo le Nazioni Unite, nell’intero sudest asiatico la popolazione ha cominciato a diminuire già nel 2021. L’anno dopo si sono aggiunte la Cina, il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. Nel 2023 in Giappone il tasso di fertilità totale, che misura il numero di figli che una donna avrà in media nel corso della sua vita, era inferiore del 40 per cento al livello di sostituzione demografica, cioè il numero medio di figli per donna necessario per garantire che una popolazione si riproduca e si mantenga costante nel lungo termine.

In Cina il divario era del 50 per cento, a Taiwan quasi del 60 per cento, in Corea del Sud del 65 per cento. In India il tasso di fertilità è in netto calo nei grandi centri urbani: a Calcutta, per esempio, nel 2021 era inferiore a una nascita per donna, “meno dei dati registrati in una città della Germania o dell’Italia”. La situazione non è molto migliore in America Latina e perfino nel Nordafrica e in Medio Oriente. L’unico bastione delle nascite resta l’Africa subsahariana, che ha un tasso di fertilità pari a 4,3.

Il calo demografico pone enormi sfide sociali ed economiche. “Le società”, scrive Eberstadt, “dovranno affrontare una realtà del tutto nuova, in cui ci sono meno lavoratori, risparmiatori, contribuenti, imprenditori, innovatori, consumatori ed elettori. L’invecchiamento della popolazione è un ostacolo alla crescita economica e ai sistemi di welfare dei paesi ricchi”. Molti già pensano a come affrontarlo, e spesso le ricette passano per generosi sussidi che incoraggino la natalità, insistendo sul concetto di famiglia tradizionale, e allo stesso tempo riducano il bisogno di accogliere nuovi immigrati. È questa per esempio l’idea del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Lo ha spiegato bene in questo articolo Alessio Marchionna, editor di Stati Uniti di Internazionale e curatore della newsletter Americana. La visione di Trump è destinata a scontrarsi con la realtà e anche con i limiti del bilancio pubblico, visto che comporta molte più spese e tanta burocrazia.

Secondo Eberstadt, invece, la vera sfida è cercare di migliorare gli standard di vita, ottenendo progressi materiali, tecnologici e in settori come la sanità e l’istruzione. Persone più sane, istruite e con un’aspettativa di vita più alta possono lavorare più a lungo, soprattutto se innovazioni come l’intelligenza artificiale permetteranno di aumentare la produttività di tutti. La speranza, conclude l’economista, è che anche questa volta “l’umanità riesca a cavarsela con la scarsità di risorse come ha sempre fatto”. Gli esseri umani hanno colonizzato il pianeta, esplorano lo spazio e continuano a trasformarsi, adattandosi all’ambiente esterno. Ma sicuramente avranno bisogno di un po’ più di inventiva e adattabilità per resistere alle conseguenze del calo demografico”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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