Il suono del telefonino mi ha perforato le orecchie. Nella mia testa si affollavano ancora le immagini dell’attesa, della sala parto, delle doglie che non arrivavano. “Pronto, Claudio, sono la Sabri! Allora com’è il bambino? Quanto pesa?”. Cristo santo, è incredibile quanto possano urlare le ragazze lombarde. Io dormivo ancora: ma no, Sabri… non è ancora nato. Faticavo a scandire le parole: deve ancore nascere. “Ah no? Io credevo di sì, ma che dormivi?! Oddio, ma che ora è da voi?! Torna a dormire! Dormi, dormi!!!”. Ho guardato l’ora, erano le tre e mezza di notte. E alzando gli occhi dal telefono, con un certo stupore ho visto un neonato che dormiva accanto al mio letto. Ma allora è nato. Mio dio, ora ero sveglio, e il bambino era nato. Mi sono messo a ridere da solo e ho richiamato la Sabri. Ciao, sono di nuovo io, no, scusa, mi sono sbagliato, è nato. Il bambino è nato qualche ora fa. “Claudio, ma che stai dicendo?! Hai bevuto per caso?”.

Qualche ora prima.

“Ci siamo”. L’intervallo tra una contrazione e l’altra si era fatto molto breve. “Vado a chiamare il dottore”. Rachel era un’infermiera del Riverside Methodist Hospital di Columbus, in Ohio. Era la persona più alta di tutto il piano, compresi i pazienti, e probabilmente la più alta di tutto l’edificio. Parlava con un filo di voce, colpa dei postumi di una laringite. In un’altra situazione questa gigantessa in tuta verde dentifricio che emetteva suoni striduli mi avrebbe fatto ridere. Ma la serietà del momento non permetteva distrazioni.

Erano le dieci di sera. Tara stava per dare alla luce il nostro terzo bambino e, a differenza di quanto era successo per la nascita delle gemelle tre anni e mezzo prima, stavolta ero arrivato in tempo per assistere al parto.

Il pomeriggio era passato via tranquillo. Tara era arrivata in clinica all’ora di pranzo e le infermiere avevano cominciato subito a somministrarle le medicine per provocare il parto. “Ancora niente”, mi diceva allo scoccare di ogni ora, quando la chiamavo per sapere se c’erano novità. Io e Manlio non volevamo portare le bambine in clinica con troppo anticipo, perché farle correre su e giù lungo i corridoi per un’oretta si poteva fare, ma farle correre su e giù per i corridoi per cinque ore ci sembrava troppo. E quindi le lasciavamo scorrazzare lungo le enormi corsie del supermercato, mentre noi facevamo provviste per i giorni successivi.

Quando siamo arrivati tutti e quattro al Riverside, verso le sei di pomeriggio, la stanza di Tara era piena di gente: c’era Becky, sua madre, con il compagno Don. C’era sua sorella Lisa, suo marito Nick e Rachel, l’infermiera gigante senza voce. Le bambine davano spettacolo, mentre io mi ero seduto accanto a Becky per fare quattro chiacchiere. Mi ha raccontato dei suoi due nuovi cavalli e di come procedevano i lavori per rinnovare il loro ranch. Ma a un certo punto mi ha guardato dritto negli occhi, afferrandomi il polso, e mi ha detto: “Claudio, dimmi una cosa: questo è il vostro ultimo bambino, vero?”. Mi è scappato un sorriso. E anche a lei. Sì, Becky, ti prometto che questo è l’ultimo.

La prima volta che Tara aveva accennato a sua madre che aveva intenzione di fare una gravidanza per una coppia italiana, Becky non aveva fatto i salti di gioia. Si preoccupava giustamente per la salute della figlia, e comunque le sembrava un’idea un po’ assurda. Il giorno in cui l’abbiamo conosciuta, quando Tara ci ha portati a passare una giornata al suo ranch, è tutto cambiato. Come al solito, sulla carta i nostri progetti sembravano una pazzia ma, quando poi si passava alle persone in carne e ossa, tutto sembrava più bello.

Col tempo Becky si è affezionata a noi in maniera incredibile: l’ultima volta che siamo stati da lei, ci ha fatto promettere che la prossima volta resteremo tutti e cinque a dormire al ranch. Cinque, sì. Perché nel frattempo, al Riverside Hospital stava nascendo Bartolomeo.

Man mano che il momento del parto si faceva più vicino, sono cominciate le trattative per accaparrarsi i due posti disponibili in sala parto. Nick si è tirato indietro per primo: aveva tenuto la mano di sua moglie già tre volte, quando erano nati i loro due figli, e quando erano nate le nostre Clelia e Maddalena. Manlio ha seguito a ruota: serviva qualcuno che restasse con le bambine, e ci sarebbe rimasto volentieri lui. Quel “volentieri” sottintendeva un “lo sai che se vedo una goccia di sangue mi sento male”.

Io, che per le gemelle non ero riuscito ad arrivare in tempo, non mi sarei perso la nascita di mio figlio per niente al mondo. La seconda prescelta è stata Lisa, la sorella di Tara. “Sai”, mi ha spiegato Becky sottovoce, “lei non ha mai assistito a nessun parto, quindi le lascio volentieri il posto”. “Sai”, mi ha invece bisbigliato Tara poco dopo, “l’ultima cosa di cui ho bisogno è avere mia madre che mi si agita intorno”.

Così, mentre Manlio si sistemava in una stanza a guardare un dvd con le bambine, io e Lisa siamo entrati in sala parto. Alla fine l’infermiera gigante senza voce ci aveva detto a gesti che poteva entrare anche Nick, che si è subito messo a un angolo della stanza ad armeggiare col Blackberry sorseggiando una bibita in lattina.

“Ci siamo”, Rachel è andata a chiamare il dottor Jenkins, che non si è fatto attendere troppo. Braccia muscolose ben in vista e berrettino colorato, ma perché i dottori dell’Ohio sembrano tutti usciti da Grey’s anatomy?

“Lei è il padre del bambino?”, mi chiede notandomi appostato accanto al letto. “Sì, sono io”. “Ma io sono il marito di Tara”, afferma Nick dall’angolo opposto della stanza. “Il marito e il padre del bambino, tutti e due in sala parto. Questa non mi era mai capitata”, dice divertito il dottor Jenkins.

Man mano che si avvicinava il momento del parto, e che la povera Tara cominciava a sentire forti contrazioni, io mi sono accorto che stavo tremando e mi sono seduto su una seggiolina lì accanto. Non che avessi paura, ma sentivo l’emozione di un momento importante. Notando che ero in stato un po’ emotivo, Nick è venuto accanto a me, a darmi un po’ di conforto, “Vedrai che dura poco. Un quarto d’ora ed è tutto finito”, mi ha detto senza mai staccare gli occhi dal telefonino.

Nonostante in sala ci fossero il marito e il padre del bambino, la vera parte dell’uomo l’ha fatta Lisa. Concentratissima fino all’ultimo minuto, teneva stretta la mano di Tara, respirava e spingeva insieme a lei, seguendo le istruzioni del dottor Jenkins.

Che bello l’istante in cui mi hanno messo Bartolomeo tra le braccia. Apriva e chiudeva la bocca, senza ancora riuscire a emettere alcun suono. Il mio bambino ha cominciato a piangere quando era già tra le mie braccia.

Tara era sfinita, si era interrotta la tradizione dei suoi parti innocui e ultraveloci, perché stavolta aveva avuto delle belle doglie. “Siete fortunati che le scorse volte non è andata così”, mi ha detto tra il serio e lo scherzoso, “perché se no questo bambino non sarebbe nato!”. Mi ha chiesto di dare un’occhiata al trouble maker, e si è presa il piccolo tra le braccia.

Mentre l’infermiera ha cominciato a pulire e pesare il neonato, io sono corso ad avvertire Manlio che era andato tutto bene. L’ho trovato che dormiva, le bambine con lo sguardo fisso sulla tv. “Si è addormentato”, mi ha spiegato Maddalena. E come ti sbagli.

Quando Bartolomeo è arrivato in stanza, però, la situazione si era ribaltata: Manlio, ora sveglio, ha ammirato il suo nuovo bambino, mentre le due sorelle, crollate dal sonno, avrebbero dovuto aspettare il mattino seguente. Giusto il tempo di un bacino a Bartolomeo, e papà Manlio era già sulla strada di casa con le gemelle addormentate nei seggiolini. E io sono rimasto solo con quello scricciolo.

È incredibile il senso di pace che ti trasmette un neonato che dorme. O almeno che trasmette a me. Tempo di un annuncio lampo su Facebook, e gli occhi già mi si chiudevano da soli. Mi sono addormentato mentre lo fissavo dal vetro della sua culletta, messa accanto al mio letto. Le emozioni del giorno e il jet-lag ancora incombente mi hanno fatto piombare in un sonno profondissimo. Buona notte, piccolo.

La telefonata della Sabri mi ha svegliato di soprassalto. Le donne lombarde hanno il potere di far gridare perfino i telefoni. Quando l’ho richiamata per dirle che mi ero sbagliato, che il bambino era nato, mi rendevo conto che potevo essere preso per pazzo. “Claudio, dicevi ‘Ancora no, ancora no’, e adesso invece è nato qualche ora fa?! Ma hai bevuto per caso?”. No, non avevo bevuto, eppure mi sentivo ubriaco. Ridevo con gli occhi chiusi e la testa poggiata sul cuscino. Lo so, è incredibile, ma è nato. Bartolomeo è nato davvero.

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