Se fossi un autore di biopic mitologici, la figura a cui mi dedicherei è un personaggio minore della saga omerica. Di nome fa Elpenore. Di lui si sa solo che dei compagni di Odisseo era il più giovane, che molto gagliardo con le armi non era, e nei pensieri “non molto connesso”. E se ne conosce la fine: ubriaco si addormenta sul tetto della casa di Circe e il chiasso delle voci in partenza lo sveglia di soprassalto. Cade dal tetto e si rompe l’osso del collo. Fu “la mala sorte d’un nume” e “il vino infinito”, spiega al suo capitano sorpreso d’incontrarlo per primo nell’anticamera del regno dei morti. Lucio Dalla aveva scritto nella sua Itaca del destino ingiusto degli oscuri compagni di Odisseo, ma con la sua ebbra caduta Elpenore va oltre la denuncia sociale. Rende umano il poema. Introduce l’antieroe novecentesco. Tra tanti prodigi, ecco finalmente “uno di noi”. Il primo che s’incontra nell’Ade, prima dell’indovino Tiresia, prima della schiera di eroi: Elpenore! E dire che a tanto poco serviva che l’hanno dimenticato, lì a terra. Caduto. Se ne vanno anzi, e solo tra i morti lo si ritrova supplice di sepoltura. È l’antieroe del mondo eroico, il più contemporaneo. La sua odissea da comprimario non è fatta di principesse e divinità adirate. A capofitto termina la vita, senza idea del peccato. Irresponsabile. Quanto è rasserenante un mondo in cui temere soltanto la propria hybris .

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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati