Poche settimane dopo essere stato nominato presidente del consiglio, Mario Draghi è già alle prese con una disputa interna alla sua coalizione. Non per i contenuti, ma per il metodo: Draghi ha scelto dei ministri tecnici, esterni ai partiti, per preparare il piano per l’uso dei fondi dell’Unione europea. A loro volta i ministri hanno chiesto una consulenza a quattro società private internazionali: McKinsey, PwC, Ernst & Young e Accenture. Sul loro ruolo non c’è stata nessuna discussione preventiva né un’informazione trasparente, solo una nota del ministero dell’economia in cui si precisa che “La McKinsey, così come altre società di servizi che regolarmente supportano l’amministrazione nell’ambito di contratti attivi da tempo e su diversi progetti in corso, non è coinvolta nella definizione dei progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)”. Le decisioni sul Pnrr non sarebbero prese dai consulenti, ma dai responsabili dei ministeri.

Tuttavia alcuni politici e due quotidiani di sinistra dipingono Draghi come un burattino nelle mani delle società di consulenza. Tra questi c’è il Fatto Quotidiano, il giornale che da anni sostiene il Movimento 5 stelle, ma che ora fatica ad accettare sia il rovesciamento del governo Conte sia la partecipazione dell’ex movimento di protesta a un governo di grande coalizione guidato da Draghi. Il quotidiano ritrae in prima pagina Draghi come un uomo sandwich della McKinsey. “È una scelta pericolosa”, sostiene Fabrizio Barca, del Partito democratico, ex ministro per la coesione territoriale, parlando di queste consulenze. Barca racconta di aver collaborato verso la fine degli anni novanta, con il ministero del tesoro, quando Draghi ne era il direttore generale. Dice che all’epoca era nelle mani delle società di consulenza e che ci vollero anni per liberarsi dal loro dominio. Anche il quotidiano Domani scrive di un “governo ombra di McKinsey”.

Mario Draghi, Roma, 17 febbraio 2021 (Matteo Minnella, Contrasto)

Torna d’attualità l’immagine stereotipata di Draghi come rappresentante di un’élite internazionale, l’uomo che già in passato, con le privatizzazioni, ha svenduto “l’argento di famiglia” italiano agli investitori stranieri. E che per alcuni anni è stato vicepresidente della banca d’affari Goldman Sachs. In effetti dal 1991 al 2001, come direttore generale del ministero del tesoro, Draghi fu l’artefice di un processo di privatizzazioni da 60 miliardi di euro. Non si trattava però dell’argenteria di famiglia, ma di aziende statali inefficienti e controllate dalla politica, usate per finanziare i partiti. Un sistema che difficilmente sarebbe piaciuto a un movimento di protesta come i cinquestelle.

Approvare tutto in una notte

Per la sua strategia di privatizzazioni, Draghi aveva bisogno di grande sostegno da parte dei consulenti, perché il suo ministero, inizialmente popolato da funzionari sottopagati ed esperti più che altro di burocrazia, era poco adatto a un compito simile. Per decenni i migliori economisti italiani non sono finiti ai ministeri economici, ma alla Banca d’Italia, dove ancora oggi si guadagna molto di più che alla Bundesbank (la banca centrale tedesca). Si diceva allora che Draghi avesse trasformato un dipartimento del ministero in una sorta di banca d’investimento. Il generoso aumento degli stipendi per i dirigenti più importanti del ministero dell’economia si diffuse in tutti i ministeri, al punto che anche il capo della polizia italiana arrivò a guadagnare seicentomila euro all’anno. Poi con un decreto si è stabilito che nessuno nell’apparato statale può guadagnare più del presidente della repubblica, cioè 240mila euro all’anno. L’allarme per il presunto trionfale ritorno dei consulenti aziendali stranieri conferma la diffidenza, soprattutto da parte dei cinquestelle, nel governo Draghi. Ma non è il frutto di un’analisi circostanziata. Serve soprattutto ai politici e ai mezzi d’informazione per salire alla ribalta.

Non si tiene neanche conto del fatto che l’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte aveva usato un metodo molto più discutibile per presentare il recovery plan: in una notte di dicembre aveva detto ai ministri come intendeva procedere e voleva che il programma fosse approvato entro la mattina seguente, senza alcuna discussione. Matteo Renzi, che faceva parte della coalizione, ha contestato quel modo di procedere, portando alla caduta del governo Conte. Ma le critiche di Renzi erano ragionevoli: stando ai piani di Conte, i 209 miliardi di euro dell’Unione europea sarebbero stati gestiti da sei esperti con una squadra di trecento dipendenti chiamati a riferire solo al presidente del consiglio. Il superesperto per la transizione ecologica doveva essere l’amministratore delegato dell’Enel, cosa che poneva più di qualche perplessità. Ma in quel caso il Fatto Quotidiano non ha visto alcun conflitto d’interessi.

La precisazione che il contratto con la McKinsey è di appena 25mila euro non ha placato gli animi. L’economista italiano Mario Seminerio, collaboratore del Fatto Quotidiano, considera la discussione troppo superficiale. In effetti, aziende come la McKinsey sono talvolta chiamate ad acquisire informazioni e cifre dettagliate per fare confronti internazionali. Il governo deve riscrivere il ­Pnrr­ in due settimane e con l’aiuto dei consulenti può usare formule simili a quelle dei piani presentati da altri paesi. Gli effetti stimati (in termini di crescita) del nuovo piano potrebbero far guadagnare all’Italia credibilità agli occhi dell’Unione europea, se calcolati con gli strumenti usati dai consulenti. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1400 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati