Salmo esce dal suo camerino ed entra nella stanza dove lo sto aspettando. “Ciao, Mauri”, mi dice stringendomi la mano. “Scusa, sono un po’ raffreddato”, aggiunge mentre si spruzza dello spray per la gola. Si muove in modo scattante, come un atleta, e parla altrettanto rapidamente con la sua voce roca e profonda, ma dà l’impressione di essere calmo. Si siede su un divano di pelle nera e si accende una sigaretta. Indossa una maglietta dei Nirvana. Dal collo gli pendono due catene d’oro con altrettante croci e ha i capelli tinti con una specie di biondo che è quasi arancione.
Siamo nei camerini del Palazzo dello sport di Roma e tra un paio d’ore il rapper sardo salirà sul palco per una delle date del suo tour italiano, in programma fino a dicembre. Poi girerà anche l’Europa e gli Stati Uniti, esibendosi in piccoli club di Londra, Parigi, Barcellona, New York, Miami e non solo. Ha appena finito di fare le prove, e gli chiedo com’è andata, dato che il Palazzo dello sport non è certo famoso per la sua acustica impeccabile. “Sono andate bene, sai? Ho suonato in posti peggiori”, risponde Salmo, vero nome Maurizio Pisciottu. E che tipo di concerto dobbiamo aspettarci? “Martelliamo. Prima con la mia band, Le Carie, e poi con il dj set, nel quale mixo insieme a Dj 2P e canto pezzi miei e di altri. Siamo gli unici a portare in giro uno spettacolo del genere. È come montagne russe molto alte, con grandi discese e risalite”.
In questo tour Salmo sta portando sul palco i brani di Ranch, il suo ultimo album, un lavoro ricco e coinvolgente, in grado di dare finalmente nuova linfa alla scena hip-hop italiana. Per registrarlo, il rapper si è allontanato dalla città dove viveva, Milano, e si è trasferito in una casa sulle colline della Gallura, in Sardegna. Ha abbandonato i social media e si è circondato solo delle persone che lavoravano ai brani. Si è lasciato influenzare dal paesaggio della sua isola, ha scritto pezzi che parlano delle origini della sua famiglia, come Crudele, e ha scavato nelle radici blues dell’hip-hop.
“Il blues in effetti è stata una delle matrici del disco, anche se non l’unica. Io vedo Ranch come il successore di Hellvisback, il mio album del 2016. Del resto il blues è stato il primo rap, perché era la musica del popolo. E poi mi piace fare musica da suonare con gli strumenti, non solo con le basi. Lo facciamo dal 2013 e mi dicevano: ‘Ma quello non è hip-hop’. Io, invece, credo che lavorare in gruppo dia più soddisfazione. Vorrei che la gente pensasse che la mia musica è imprevedibile, che non capisca mai che genere sto facendo. Ai miei concerti, infatti, viene un pubblico molto vario: c’è chi ascolta rap, chi sente rock, chi techno. Del resto il rap è nato rubando la musica degli altri, è musica crossover, come si dice in gergo”.
Meglio la Sardegna
L’ultimo disco del rapper è legato indissolubilmente alla Sardegna. A un certo punto, come ha scritto nell’autobiografia Sottopelle, ha deciso che per lui era arrivato il momento di “Ascoltare l’isola”.
“Ho girato tutto il mondo, e non ho mai trovato niente di meglio della Sardegna. Ho vissuto per quindici anni a Milano, un posto che ho amato e odiato, ma avevo voglia di tornare a casa”, spiega. “Ho comprato una casa con un ettaro di terra su una collina vicino a Olbia, è un posto magico. Il primo giorno che sono andato lì mi si è accesa una lampadina e ho pensato che nel corso della mia carriera i pezzi più belli li avevo sempre scritti a casa. Il ranch è un luogo della mente, un posto felice”.
“Il mio ranch”, continua, “non è come quello che si vede sulla copertina del disco, quello si trova in Bulgaria. È molto sardo, tutto fatto di pietra e di legno. Non si muove una foglia, nessuno ti rompe i coglioni. Quando sono andato lì ho mollato Instagram e ho sentito un’esplosione di creatività come quando avevo sedici anni. In un breve periodo ho scritto Sottopelle e ho composto i pezzi del disco. È venuto tutto fuori in un attimo. La Sardegna, fa parte di me, artisticamente sono nato lì, l’ho girata tutta, anche nei posti meno scontati. Quando ero giovane, insieme al mio gruppo Premeditazione e Dolo, ho suonato in un baretto di Ovodda, in Barbagia. Mentre cantavo la gente giocava a murra e si pungeva con il coltello. L’interno dell’isola è particolare, come scriveva Marcello Fois: ‘in Sardegna non c’è il mare’”.
A proposito di blues, in questi anni Salmo ha creato un rapporto stretto con Zucchero. Ha cantato Diavolo in me a Sanremo e ha realizzato un remix di Overdose (d’amore). Sono anche diventati amici. “Zucchero è sottovalutato, non so perché, forse per gelosia. È l’erede italiano di Joe Cocker e ha collaborato con musicisti incredibili, da Eric Clapton a Miles Davis. L’hanno chiamato a fare il concerto per il memoriale di Freddie Mercury. Ogni volta che lo incontro starei ore ad ascoltare le sue storie. È un personaggio incredibile, ma penso che in alcune cose si riveda in me, forse per questo gli sto simpatico”.
Di recente Salmo ha pubblicato Raptilian freestyle, un brano improvvisato in cui affronta diversi argomenti di attualità, dalla tragedia di Gaza (“Non puoi dire ‘genocidio’ ma puoi farlo, merde”) alla politica italiana (“Non credo al braccio teso di Vannacci”). Ma al tempo stesso non pensa che i rapper siano obbligati a sostenere alcune cause, come quella palestinese. “Il rap è nato come musica di protesta, anche se questa cosa si è un po’ persa. Io non penso che un rapper debba per forza esprimersi sull’attualità, io lo faccio solo perché mi viene spontaneo. L’hip-hop è come un tg che descrive le cose che succedono, come ho fatto in Raptilian freestyle”.
“Ma i musicisti”, riflette, “non hanno il potere di salvare il mondo, magari potessi fermare la guerra con una canzone. Al massimo posso far ragionare qualcuno che mi ascolta, anche se dubito che sarei in grado di fargli cambiare comportamento. Tu dici una cosa, loro ti dicono ‘Bravo’ e poi fanno come gli pare. Per esempio nessuno di noi, finché abbiamo telefonini e vestiti di marca, può dire qualcosa contro il capitalismo e risultare credibile. E tantomeno certi personaggi che fanno determinate pubblicità e poi nel tempo libero vogliono salvare il mondo”.
Dei nuovi rapper dice che “ce ne sono alcuni molto bravi, come Kid Yugi e Sayf. Spaccano dal vivo, comunicano con i giovani. L’ondata trap dal 2016 in poi, invece, è stata una rottura di coglioni”.
Sono passati quindici anni dall’uscita del primo disco di Salmo. Cosa spera che rimanga di lui tra qualche anno? “Non ho dubbi: le parole. Io tutt’ora mi ricordo cos’hanno scritto Kaos, Danno (dei Colle Der Fomento) e Primo Brown. Non mi ricordo le melodie, ricordo le parole. Alcune cose che rappava Kaos io a vent’anni non le recepivo perché ero più piccolo di lui al tempo, mentre oggi che ho quarant’anni finalmente le capisco. Il rap significa rappresentare se stessi, sperando che gli altri trovino nella tua storia qualcosa che li cambi, che li faccia riflettere”. Il tempo è scaduto, il concerto è alle porte. Salmo mi saluta: “Ciao bro”. E sparisce nei camerini.
Gabbie e bracci meccanici
Sono le 21.20 circa. Le luci del Palazzo dello sport si spengono. Nel palazzetto risuona il campionamento di Ave Maria catalana di Maria Carta, cantante e attrice nata in provincia di Sassari che ha fatto del recupero della tradizione sarda una missione di vita. Salmo appare sul palco in penombra, immobile. La solennità dell’organo e della voce di Carta vengono squarciate dall’entrata della band, mentre due megaschermi si alzano mostrando gabbie e bracci meccanici. Salmo prende il mano il microfono e attacca il brano On fire, evocando una “Ave Maria piena di rabbia” e implorando: “Fatemi uscire, sono il cane che abbaia”.
Segue Russell Crowe, un pezzo del 2013 che riflette con amarezza sulle contraddizioni della fama, e N€urologia, in cui Salmo ricorda: “Ho rinunciato a fare il giudice di X-Factor, ho detto no per un milione di euro”. Il rapper esibisce un finto braccio meccanico e dimostra ancora una volta di essere uno dei migliori performer italiani, non solo nel panorama rap. Le sue barre sono chirurgiche, che siano lente o velocissime non importa. Sa cantare, urlare quando serve e interagisce con il pubblico romano, molto ricettivo e caldo. Altro che raffreddore.
La prima parte dell’esibizione è tirata, con le chitarre e la batteria delle Carie sugli scudi, e sembra quasi più un concerto rock che hip-hop. E viene in mente la definizione di crossover che lo stesso artista dava dietro le quinte. Quello di Salmo in effetti è un “rap suonato” energico, muscolare. A tratti va quasi troppo veloce, non dà pausa ma è impossibile non farsi trascinare dalla sua intensità.
I momenti più tranquilli e introspettivi, per contrasto, ne escono valorizzati: Lunedì, altra riflessione amara sulla celebrità, ispirata a Everybody dies in their nightmares del rapper statunitense XXXTentacion, è tra i momenti più intensi della serata, soprattutto quando nel finale Salmo prima rappa e poi urla “La gente come me morirà da sola”.
A metà concerto, tra il pubblico si scatena il mosh pit: gli spettatori formano dei cerchi e poi si lanciano gli uni contro gli altri durante brani come Hellvisback 2. Il rap di Salmo è costruito ossessivamente attorno a lui, alla sua storia, ma ogni tanto si concede lampi di critica sociale, come nel pop elettronico di 90min, che recita “Prima di essere un vero italiano, cerca di essere umano”, mentre sui megaschermi scorrono immagini di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Sergio Mattarella e Silvio Berlusconi. Il mosh pit si ripete perfino nella cover di Zucchero Diavolo in me, mentre la chiusura della prima parte dello show è affidata alla ballata un po’ scontata Il cielo nella stanza.
Salmo e la band tornano dietro le quinte e, dopo pochi minuti di pausa, comincia la seconda parte, quella del dj set. Sul palco ci sono solo lui, con una maglietta dei Take That, e Dj 2P. Un teschio gigante cala dall’alto, mentre Salmo intona Death Usb, ricordando il periodo in cui mescolava il rap con la dubstep. Segue una carrellata di brani suoi e di altri, tra cui Ho paura di uscire e Perdonami. Il finale di Fuori controllo approda quasi in territori techno hardcore, con Salmo e Le Carie tutti insieme sul palco a godersi gli applausi. Mentre esco dal palazzetto, mi torna in mente quella frase detta all’inizio dell’intervista: “Martelliamo”. In effetti sembra di essere stati presi a martellate per quasi due ore e mezzo. Ma non fa male, anzi.
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