“Allora, sei un giamaicano di sessantanove anni di nome Stanford, diminutivo Stan, e una volta hai inscenato la tua stessa morte”. Questo è lo spiazzante incipit con cui Maisy Card, vincitrice dell’American book award, ci presenta Abel Paisley, che per trent’anni ha rubato l’identità a un altro uomo. In una manciata di pagine l’autrice mette a confronto la sua vita prima e dopo quel furto, per il lettore e per lo stesso Abel. Fantasmi di famiglia si dipana tra settecento e gli anni duemila, un romanzo corale, scritto in prima, seconda e terza persona, che pone di fronte alle conseguenze della scelta di Abel sul suo intero albero genealogico. Il passaggio da un punto di vista all’altro non è sempre fluido – a tratti sembra più una raccolta di storie –, ma è funzionale a quel senso di confusione che l’autrice ricerca anche nella narrazione non lineare. Ogni personaggio è un pretesto per giocare con i generi e con il confine tra il mito, il soprannaturale, il reale e lo storico. In questo indimenticabile romanzo d’esordio, la verità emerge come una questione di punti di vista. L’uso del patois giamaicano, probabilmente una delle note più interessanti e vivaci della scrittura di Card, è anticipato dalla nota della traduttrice Clara Nubile e diventa a tratti un italiano con sporcature grammaticali: è la grande sfida che pongono le lingue creole, pidgin o non standard. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1477 di Internazionale, a pagina 93. Compra questo numero | Abbonati