Ci siamo sbagliati di grosso. Ci siamo sbagliati tutti – politici, sondaggisti, giornalisti, cittadini comuni, fino al governo stesso – a pensare che Javier Milei avrebbe perso le elezioni legislative di metà mandato in Argentina. Alla fine le ha vinte nettamente.

Io sono sempre stato argentino. Be’, quasi sempre. Ci sono stati due o tre anni, diciamo dal 1976 al 1978, in cui ho fatto tutto il possibile per non esserlo. Ero stato costretto ad andare in esilio, vivevo in Francia e per me l’Argentina era solo un luogo dove dei militari figli di puttana stavano uccidendo i miei amici. Spesso arrivava la notizia che qualcuno si era “perso”, l’espressione che usavamo per indicare che una persona era desaparecida e non sapevamo cosa ne sarebbe stato di lei. A volte erano compagni di scuola, ragazzi di 18 o 20 anni. Cercavo di essere il meno argentino possibile. Ne parlavo poco, ne leggevo ancora meno e m’immergevo in un mondo diverso. E volevo davvero credere che laggiù un manipolo di canaglie si fosse impossessato dell’Argentina e che gli altri fossero terrorizzati, paralizzati dalla paura, e che per questo non reagivano. Ci ho messo anni prima di capire che molti appoggiavano gli assassini. Anche loro ci hanno messo anni ad ammetterlo. Per decenni ci è andata bene così.

Il 14 ottobre ho visto l’incontro tra Javier Milei e Donald Trump alla Casa Bianca e ho pensato che il presidente argentino fosse finito. E invece è successo il contrario

Alla fine sono tornato in Argentina, dove ho passato quasi tutta la mia vita lavorando, scrivendo e cercando di capire. Nel 2013 mi sono stancato di continuare a girare su quella giostra e ho deciso di venire in Spagna, per “prendermi una pausa”, come si dicono gli innamorati. Ma già all’epoca sospettavo che l’Argentina non fosse quella che pensavo.

Credo che nessuno sappia mai cos’è davvero il proprio paese. Abbiamo tutti un’idea, ma in generale quello che pensiamo è costruito sulle nostre vite quotidiane: la famiglia, gli amori, gli amici, i colleghi, quello che leggiamo o vediamo in tv e i luoghi comuni che ci vengono trasmessi, in un modo o nell’altro. Presumiamo, quasi senza accorgercene, che il nostro paese somigli a un miscuglio di tutto questo.

Ma in realtà non sappiamo nulla. Non c’è modo di sapere cosa sono gli altri, l’enorme maggioranza. Un paese è un’invenzione più o meno recente: l’unione o la separazione di territori e persone che, a partire da certe vicissitudini politiche, cercano di convincersi (perché qualcun altro tenta di persuaderle) di essere parte di qualcosa di condiviso. Un paese è fatto di milioni di persone che vivono in luoghi diversi, appartengono a classi differenti, difendono valori diversi e hanno priorità diverse. Non c’è modo di sapere cosa sono. Eppure presumiamo, ci aggrappiamo ai luoghi comuni. Nel caso di noi argentini, per esempio, crediamo di essere ciarlatani in grado di vendere qualsiasi cosa a chiunque, appassionati nella difesa di ciò che è nostro, solidali e ribelli, capaci di essere violenti ma mai troppo, lamentosi, più o meno istruiti, forse più di altri. Crediamo a tutto questo e allora naturalmente pensiamo che no, gli argentini non sopporteranno mai un tizio che li fa morire di fame, che vuole chiudere gli ospedali, che grida perché non sa parlare, che si circonda di ladri, che pronuncia frasi da manicomio, che sembra una pessima barzelletta e promette di essere ancora più crudele.

Poi, all’improvviso, succede qualcosa. Un’elezione, per esempio. E allora capiamo – tardi – che a molte persone importa soprattutto di se stesse e che se ne fregano di una massa di sconosciuti. Capiamo – tardi – che molte persone affrontano la politica con altri parametri, emotivi, religiosi, spietati e incomprensibili.

Ecco l’esempio migliore di quanto sono sconnesso dalla realtà: il 14 ottobre ho visto l’incontro tra Milei e Donald Trump alla Casa Bianca e ho pensato che il presidente argentino fosse finito, che nessuno lo avrebbe mai preso sul serio. E invece è successo il contrario: molti dei suoi elettori hanno dichiarato di averlo votato proprio perché la presenza statunitense li fa sentire più sicuri. Io parlo, leggo e incontro persone per le quali Trump è una calamità, quindi dimentico che il mondo è pieno di gente che lo voterebbe.

E così cominciamo a capire che le nostre idee sul paese erano sbagliate e che forse è sbagliato anche quello che pensiamo di noi stessi. Intuiamo, tra le altre cose, che le idee che credevamo di condividere con gli altri risultano estranee a parecchi di loro.

La democrazia non funziona, ma almeno serve a questo: a dimostrare ripetutamente che avevamo torto, che alcune cose che a noi sembravano intollerabili non lo sono per buona parte dei nostri concittadini, che quello che c’importava probabilmente non importa a molti, che gli accordi minimi, taciti, che ci facevano sentire parte di questa società sono un’invenzione.

In questi giorni molti argentini vivono questa epifania. Ma ho una notizia anche per tutti gli altri: nessun paese si salva. Non sappiamo niente. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati