Èpassato poco più di un anno da quando mi sono trasferito in Germania, ma ho l’impressione che in questo periodo il Giappone sia cambiato profondamente. Mi riferisco, in particolare, al successo del populismo. Questo fenomeno si configura come una critica alle élite, ma le sue priorità possono variare, passando dall’ostilità verso gli immigrati alla riduzione delle tasse e ai tagli alla spesa sociale, temi con cui la politica deve per forza confrontarsi.
Il problema del populismo, però, è che spesso si fonda su teorie del complotto e campagne di disinformazione, che circolano rapidamente attraverso i social media. Un esempio plateale è stata l’affermazione di Donald Trump durante la campagna elettorale secondo cui negli Stati Uniti gli immigrati di Haiti mangiano gli animali domestici.
Solo l’ascesa della sinistra può portare a una maggiore tassazione dei redditi più alti, all’aumento dei salari e a un ampliamento delle politiche di giustizia sociale
Il populismo non è un fenomeno nuovo. In occidente è presente almeno dal secondo decennio di questo secolo. In Giappone, invece, nonostante l’esistenza di forze politiche definite populiste come il partito Nippon ishin no kai o il Reiwa shinsengumi, la sua espansione è stata limitata. Nel bene o nel male, nel Giappone dei “trent’anni perduti” seguiti allo scoppio della bolla speculativa nel 1991, le grandi trasformazioni invocate dal populismo non hanno mai avuto una forte presa.
Tuttavia, anche i giapponesi, tradizionalmente inclini alla sopportazione, sembrano aver raggiunto il limite. La causa principale è la recente crescita dell’inflazione e del costo della vita: il malcontento della popolazione ha trovato un canale di sfogo in un populismo antimmigrazione come quello del partito Sanseitō, o in uno incentrato sui tagli fiscali come quello del Partito democratico per il popolo. Il motivo è che le posizioni delle due principali forze politiche, ovvero il Partito liberaldemocratico e il Partito costituzionale democratico del Giappone, sono diventate ormai pressoché indistinguibili.
Osservando la situazione da questa prospettiva, il populismo non va considerato esclusivamente in chiave negativa. Quando il malcontento sociale non trova un riscontro adeguato all’interno del quadro politico, il populismo non si configura come una crisi della democrazia, ma si manifesta piuttosto come una sua componente essenziale: è uno dei meccanismi che danno voce a chi non si sente rappresentato, quando i metodi tradizionali hanno bisogno di riforme. In questo senso, l’era del populismo non si è ancora conclusa. Non resta quindi che accettare questa realtà e trasformarla in un’occasione di cambiamento sociale.
Quello che manca in Giappone oggi è, semmai, un populismo di sinistra. Il Partito comunista giapponese e il Partito socialdemocratico vedono invecchiare i propri iscritti e continuano a perdere seggi. Una situazione in netto contrasto con quanto accade all’estero, dove l’avanzata del populismo tende a far guadagnare seggi sia a destra sia a sinistra.
Per esempio, il partito di sinistra tedesco erede dell’ex Partito socialista unificato di Germania è diventato molto popolare tra i giovani, registrando una rapida crescita nei consensi. La campagna elettorale più seguita quest’anno è stata quella di Zohran Mamdani, eletto sindaco di New York a 34 anni, socialista musulmano di origini indiane. Il suo programma ha l’obiettivo di trasformare New York in una città più accessibile con gli autobus e gli asili nido gratuiti, con gli affitti calmierati e spacci comunali. Per finanziare queste misure propone di tassare i ricchi per un ammontare di circa dieci miliardi di dollari: un piano audace che gli ha garantito un crescente consenso tra gli elettori.
Solo l’ascesa della sinistra può portare a politiche che permettano una maggior tassazione dei redditi più alti, l’aumento dei salari e un ampliamento delle politiche di giustizia sociale. Eppure in Giappone, dove i partiti di sinistra e i sindacati sono deboli, i salari restano fermi e il dibattito ruota quasi esclusivamente attorno ai tagli fiscali, che vanno a vantaggio soprattutto delle classi più ricche. Se i salari aumentassero, ne risentirebbero i profitti delle aziende, che sarebbero quindi spinte a investire in nuove tecnologie. Ma se ci si accontenta di riduzioni fiscali senza rivendicare aumenti salariali, gli imprenditori non avranno alcun incentivo a migliorarsi.
In questi anni alle aziende è stato attribuito un valore superiore rispetto alle loro reali capacità, grazie a un mercato artificiale gonfiato dall’Abenomics (le politiche liberiste dell’ex premier Shinzō Abe), che ha finito per blandire i dirigenti. Lo scotto da pagare è oggi un’inflazione accelerata dal deprezzamento dello yen. Eppure i dirigenti continuano a essere viziati, stavolta con i tagli fiscali. Le cause della stagnazione giapponese sono ormai evidenti. Il paese ha davvero bisogno di un populismo di sinistra. ◆ jb
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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati




