Se ci fosse stato solo Zohran Mamdani, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe potuto facilmente sminuire la vittoria democratica alle elezioni per la poltrona di sindaco di New York, città così poco rappresentativa del paese da poterne essere considerata quasi l’antitesi. Ma il 4 novembre si sono tenute molte altre votazioni, e tutte, senza eccezioni, sono state vinte dai democratici. In alcuni casi, come nel New Jersey, è stato rovesciato il risultato delle presidenziali, a un anno esatto di distanza.

Quali lezioni se ne possono trarre? Ne vedo tre, e tutte peseranno sul futuro del mandato di Trump. Prima di tutto sembra che il presidente sopravvaluti la sua capacità di influenzare il voto: ha voluto interferire direttamente nella campagna elettorale di New York, e ha perso. Ha usato anche gli insulti, come fa con tutti i suoi avversari, senza ottenere nulla.

Trump ha definito Mamdani “un comunista”, offesa suprema negli Stati Uniti. Ma non ha funzionato. Ha puntato sulla paura dell’islam, chiamando “stupidi” tutti gli ebrei newyorchesi che pensavano di votare Mamdani. Ma senza successo, anche perché il caso di antisemitismo del momento è l’intervista concessa da Nick Fuentes, un influencer ammiratore di Hitler, all’autore di podcast Tucker Carlson, della galassia Maga (make America great again).

Seconda lezione: Trump ripete fino alla nausea che gli Stati Uniti stanno vivendo una nuova età dell’oro, ma buona parte della popolazione ha una percezione molto diversa. L’inflazione persistente, le incoerenze della guerra commerciale degli ultimi sei mesi e l’assenza di risultati tangibili della politica di reindustrializzazione alimentano la disillusione.

Trump ha dimenticato il principio numero uno della politica statunitense: l’economia detta il comportamento degli elettori. It’s the economy, stupid, diceva la formula diventata famosa durante la vittoriosa campagna elettorale di Bill Clinton. Una delle mosse vincenti di Zohran Mamdani è stata proporre un limite al costo esorbitante degli affitti a New York.

Trump ha ancora un anno per evitare che le elezioni di metà mandato somiglino a quelle di questa settimana, con una rivincita democratica che cavalchi lo scontento di chi aveva scelto Trump non per questioni ideologiche, ma pensando che avrebbe saputo migliorargli la vita.

Il passo successivo

Come reagirà il presidente alla sconfitta? Questa è la terza lezione. Chiunque altro proverebbe a trarre le necessarie conclusioni politiche, aggiustando la mira alla luce di un primo avvertimento degli elettori poco tempo dopo la vittoria presidenziale.

Ma il rischio è che il temperamento impulsivo di Trump lo spinga a insistere ancora di più nella tendenza autoritaria e a forzare la mano quando non ottiene subito ciò che vuole. Nove mesi dopo l’inizio del suo secondo mandato, Trump continua a indebolire i contropoteri che sono la forza degli Stati Uniti e accentra l’autorità fino all’estremo. Ma può spingersi ancora oltre, in un momento in cui la giustizia statunitense si interroga sul suo modo di governare.

Oggi molti temono che il passo successivo di Trump possa essere quello di invocare i pieni poteri in base a una legge del diciannovesimo secolo, usando l’esercito ancora di più di quanto stia giù facendo e mettendo in riga i giudici e la stampa. Paranoia? Può essere, ma resta il fatto che Trump è notoriamente incapace di accettare una sconfitta, e il 4 novembre ne aveva chiaramente il profumo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Iscriviti a
Americana
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
Iscriviti
Iscriviti a
Americana
Cosa succede negli Stati Uniti. A cura di Alessio Marchionna. Ogni domenica.
Iscriviti

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it