Negli ultimi anni il re del Marocco Mohammed VI ha avuto due grandi ambizioni: chiudere da vincitore il conflitto nel Sahara Occidentale e rendere il suo paese una potenza regionale. Jared Kushner, genero e consigliere del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, gli ha offerto l’occasione di realizzare i suoi sogni, con la sola condizione di riconoscere Israele. Il re ha barattato così l’accettazione dell’occupazione marocchina del Sahara Occidentale con quella dell’occupazione israeliana della Palestina, entrambe contrarie al diritto internazionale.
L’affare era allettante, e la contropartita è stata definita nel corso dei molti viaggi fatti negli ultimi due anni da Kushner, grazie al lavoro dell’inviato speciale Avi Berkovitz e alle discussioni tra il segretario di stato statunitense Mike Pompeo e il re Mohammed VI.
Per gli Stati Uniti il riconoscimento della “marocchinità” del Sahara Occidentale non ha rappresentato grandi difficoltà: l’Algeria, tradizionale alleata dei sahrawi (gli abitanti della regione), ha i suoi problemi politici a cui pensare, con un presidente assente, uno stato maggiore indebolito e un esecutivo che fatica a ristabilire un legame con la società. Neppure le Nazioni Unite sono una minaccia. Incaricato nel 1991 di risolvere la questione del Sahara Occidentale, l’Onu ha fallito nella sua missione e da oltre un anno non riesce neanche a nominare un inviato speciale del segretario generale per questo territorio, ex colonia spagnola. Quindi era il momento ideale perché il sovrano marocchino accettasse l’accordo statunitense.
Più difficile è farlo accettare alle piazze marocchine, che più volte hanno manifestato contro le ingiustizie subite dai palestinesi. Eppure tutti sapevano che si stava tentando una normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele, anche se non erano usciti dettagli su quando esattamente si sarebbe realizzata né come sarebbe stata annunciata da Rabat. L’ha fatto in tutta fretta e con un tweet Trump, che prima di uscire di scena vuole a tutti i costi mostrare al mondo di aver lavorato duramente alla trasformazione del Medio Oriente, portando diversi stati arabi a riconoscere Israele e a stringere rapporti economici e strategici con lo stato ebraico.
Rischi e vantaggi
Per Rabat l’offerta di Trump è tutt’altro che insignificante. Impantanato da 45 anni in un conflitto territoriale e umiliato dal Fronte Polisario, che rivendica la sovranità sull’ex colonia spagnola, il Marocco si è rifiutato di organizzare un referendum per l’autodeterminazione temendo una sconfitta. Alla fine degli anni novanta la monarchia aveva concesso ai sahrawi l’autonomia sotto la sovranità del Marocco e nel 2007 aveva proposto un piano per realizzarla. Ma negli ultimi anni sembra aver fatto marcia indietro, anche considerato quant’è centralizzato il potere decisionale nel paese. Concedere l’autonomia ai sahrawi potrebbe costituire un precedente e aprire ad altre rivendicazioni (per esempio da parte del Rif, dove nel 2018 c’è stata una rivolta contro le autorità, soffocata con la violenza).
Il riconoscimento della sovranità marocchina sul Sahara Occidentale da parte degli Stati Uniti – a cui potrebbero unirsi altri paesi in Europa, nel mondo arabo e in Africa – permetterebbe al Marocco di ottenere una vittoria totale sull’avversario, facendo cadere le opzioni di autodeterminazione e autonomia in cui l’Onu ha ingabbiato il conflitto fino a paralizzarlo. Nuovi rapporti con Israele offrono altri vantaggi al Marocco. La cooperazione nel campo militare e della sicurezza, già in atto, potrà avvenire alla luce del sole. È prevista una collaborazione economica, saranno aperte le ambasciate e inaugurati voli diretti tra i due paesi.
L’annuncio ha avuto l’effetto di una bomba. Gli addetti stampa del re e i giornali marocchini hanno dovuto attingere alla storia per spiegare o giustificare un legame con Israele che può sembrare innaturale a molti marocchini. Secondo il Le360, sito d’informazione vicino al potere, “una lunga storia legittima ampiamente il riavvicinamento”. Per il giornale questa scelta politica s’inserisce nel quadro della tradizionale protezione offerta dalla monarchia agli ebrei marocchini. Molti di loro se ne sono andati, soprattutto in Israele, e nel paese oggi ne restano meno di ottomila. Ma gli ebrei marocchini, che rappresentano la seconda comunità più numerosa in Israele, non hanno mai tagliato i ponti con il Marocco e ci tornano regolarmente in vacanza.
Insistendo sull’antichità e la continuità delle relazioni con gli ebrei marocchini in Israele, la monarchia toglie a questo atto politico uno scopo sionista e lo ricollega alla parte ebraica della propria identità (che del resto il Marocco ha sempre riconosciuto). Tralascia però le motivazioni che portarono gli ebrei, tanto protetti e apprezzati, a lasciare il regno: come negli altri paesi arabi, la nascita d’Israele nel 1948 provocò manifestazioni violente in varie città del Marocco, e la partenza di circa 180mila ebrei tra il 1950 e il 1967.
I mezzi d’informazione filogovernativi evidenziano anche il ruolo che ha avuto il Marocco nella promozione della pace nella regione, e sottolineano che l’impegno del paese in favore della causa palestinese non sarà compromesso. La monarchia, che si dice favorevole alla soluzione dei due stati, lascia intendere che da alleata d’Israele potrà agire più facilmente. Un comunicato reale ha ribadito la necessità di preservare lo status speciale di Gerusalemme e di far riconoscere l’importanza della moschea Al Aqsa. Ma ha accuratamente evitato ogni riferimento alla risoluzione 1397 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che condiziona il riconoscimento d’Israele all’esistenza di uno stato palestinese.
Al di là del conflitto israelo-palestinese, il Marocco punta a giocare un ruolo forte nella regione, impegnandosi in particolare nella soluzione della crisi interna del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg). La missione che si è dato il Marocco di Mohammed VI, in una terra insidiata da guerre e conflitti, è molto difficile. Per compierla dovrà convincere il suo popolo, ma anche la comunità internazionale, della bontà delle sue azioni e delle sue scelte politiche. ◆ _fdl _
Khadija Mohsen-Finan _ è una politologa, ricercatrice e docente all’Université Paris 1. Il suo ultimo libro è Dissidents du Maghreb _(Belin 2018).
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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati