In Se questo è un uomo _e poi in _I sommersi e i salvati, Primo Levi parla di coloro che ad Auschwitz e altrove eran0 chiamati – non si sa bene perché – Muselmänner (“musulmani”): prigionieri che avevano raggiunto uno stato d’inedia e prostrazione tali che si limitavano a sopravvivere attendendo la morte. Nel ricordo e nella riflessione del dopoguerra sull’esperienza dei campi questa figura ha assunto sempre più importanza ed è stata posta al centro di saggi e analisi. All’inizio degli anni ottanta due medici polacchi decisero di fare un’inchiesta per esplorare la condizione dei Muselmänner prendendo in esame 89 testimonianze di sopravvissuti (tra i quali alcuni che “musulmani” lo erano stati). Pubblicarono i risultati in questo libro oggi tradotto in italiano che dietro lo schema di un’indagine rigorosa (in cui si succedono capitoli relativi a “definizioni”, “epidemiologia”, “cause e fattori” e così via) dà ampio spazio alle voci degli intervistati. Emergono così analiticamente i differenti aspetti che caratterizzavano queste figure. L’aspetto fisico, la fondamentale relazione della loro condizione con la fame, gli stenti, i parassiti e le malattie, e ancora di più il ruolo giocato dalla psiche: la perdita della speranza, determinata per ognuno da cause diverse, che rende gli esseri umani proni all’accettazione della violenza. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati