Il 14 novembre la Svizzera e il Liechtenstein hanno stipulato con gli Stati Uniti una dichiarazione d’intenti giuridicamente non vincolante. L’intesa prevede in particolare che Washington riduca al 15 per cento al massimo i dazi aggiuntivi applicati alle esportazioni provenienti dalla Svizzera. Il 4 agosto il presidente Donald Trump aveva inflitto alla Confederazione elvetica dai dazi aggiuntivi pari al 39 per cento. Da allora i vertici di Berna avevano avviato delle trattative con la Casa Bianca, temendo gravi danni per l’economia nazionale. Nel terzo trimestre del 2025, infatti, il pil svizzero è diminuito dello 0,5 per cento.

I settori più danneggiati sono stati quello chimico e il farmaceutico. Ora l’attuazione dell’intesa ridà speranza alla Svizzera. Tuttavia strappare quest’accordo a Trump non è stato facile. L’intesa comporta impegni molto pesanti per l’economia elvetica. Ma c’è un altro effetto collaterale forse più pesante e dagli effetti imprevedibili: l’accordo è stato reso possibile dall’azione congiunta di un gruppo di imprenditori che di fatto hanno scavalcato la politica.

Lo conferma la ricostruzione dei negoziati realizzata dal domenicale del prestigioso quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung. Tutto è cominciato il 31 luglio con una burrascosa telefonata fra Trump e Karin Keller-Sutter, la presidente della Confederazione elvetica. La Casa Bianca aveva intenzione di infliggere alla Svizzera dazi aggiuntivi del 39 per cento a partire dal 1 agosto, proprio il giorno in cui la Confederazione ricorda la sua nascita, avvenuta nel 1291.

Il team Switzerland

Durante la telefonata Trump avrebbe criticato duramente il disavanzo commerciale di 39 miliardi di dollari, “generato da appena nove milioni di svizzeri” (osservazione questa che dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sono profonde l’ignoranza e l’ottusità insite nella mentalità dei populisti e in particolare del presidente statunitense e dei suoi seguaci). Keller-Sutter avrebbe tentato di spiegare le cause dello squilibrio ma, secondo le ricostruzioni, Trump avrebbe reagito con crescente irritazione, bollando il tono della presidente come “pedante”. La situazione sarebbe degenerata al punto che Trump avrebbe deciso di chiudere la chiamata. E nel giro di alcune ore è arrivato da Washington l’annuncio ufficiale dei dazi al 39 per cento.

Subito dopo Keller-Sutter aveva avviato nuovi negoziati. Il 5 agosto era andata negli Stati Uniti insieme al ministro dell’economia Guy Parmelin, ma era stato tutto inutile: Berna, racconta la Neue Zürcher Zeitung, ha capito che “con la diplomazia classica non avrebbe ottenuto niente”. A quel punto Helene Budliger, diplomatica e direttrice della Segreteria di stato dell’economia (Seco), ha suggerito di agire “fuori dai binari consueti” attraverso una sorta di “diplomazia parallela”.

Essendo noto che Trump disprezza i politici e preferisce avere a che fare con gli imprenditori, l’idea era mettere insieme un gruppo di influenti uomini d’affari in grado di riportare l’inquilino della Casa Bianca al tavolo dei negoziati. È nato così il “team Switzerland”, formato da ricchi imprenditori con agganci solidi a Washington. Alla guida del gruppo c’era Alfred “Fredy” Gantner, un miliardario che ha fatto grossi investimenti negli Stati Uniti e conosce personalmente figure di spicco come il segretario al tesoro Scott Bessent e quello al commercio Howard Lutnick. Così nel giro di poche settimane Gantner e i suoi amici “hanno fatto quello che non era riuscito a fare il governo federale svizzero”.

Per convincere la Casa Bianca gli imprenditori hanno presentato idee per ridurre il deficit commerciale con la Svizzera, tra cui produrre più lingotti d’oro direttamente negli Stati Uniti e promettere investimenti miliardari da parte delle case farmaceutiche elvetiche. Sono stati proposti poi alcuni “trucchi da prestigiatore”: per esempio fare in modo che la Swiss, la compagnia aerea di bandiera, ordini in futuro i suoi velivoli direttamente da Zurigo e non da Malta, in modo che i Boeing comprati riequilibrino ulteriormente i rapporti commerciali.

Ci sono poi gli acquisti di armi: non si conoscono ancora bene i dettagli, ma al cuore dell’affare dovrebbero esserci i sistemi antimissile Patriot. Nel complesso, entro la fine del 2028 le aziende svizzere dovrebbero investire negli Stati Uniti duecento miliardi di dollari. Il governo di Berna, inoltre, si è impegnato a ridurre i dazi sulle importazioni di una serie di prodotti statunitensi, tra cui manufatti industriali, pesce e beni agricoli.

Ovviamente il team sapeva bene che le proposte da sole non sarebbero bastate. Per questo ha puntato fin dall’inizio sulla collaborazione (a suon di milioni) di potenti lobbisti statunitensi. Tra questi c’è l’American Global Strategies, un’azienda di consulenza per cui lavorano ex collaboratori di Trump e soprattutto Ed McMullen, ex ambasciatore statunitense a Berna. Ma gli imprenditori svizzeri sapevano bene che per convincere Trump servivano anche “regali costosi impacchettati con messaggi accattivanti”, in grado di solleticare il suo ego smisurato e le sue manie da monarca assoluto.

Per questo Marwan Shakarchi, amministratore delegato della fonderia d’oro Msk Pamp, è arrivato nello Studio ovale con un lingotto su cui erano incisi i numeri 45 e 47 (in riferimento ai mandati presidenziali di Trump) e accompagnato dal messaggio: “Signor presidente, lingotti come questo in futuro saranno prodotti in Oklahoma”. Jean-Frédéric Dufour, amministratore delegato della Rolex, ha regalato un Rolex d’oro promettendo che Berna avrebbe progressivamente ridotto il deficit commerciale, “puntuale come un’orologio svizzero”. La scelta dei regali e della linea da tenere nello Studio ovale erano state concordate con Budliger e suoi collaboratori.

La vicenda ha permesso a molti di esaltare “le virtù dello spirito imprenditoriale elvetico”, ma presenta anche un grande perdente: la politica. Come osserva la Neue Zürcher Zeitung, “bisognerebbe rispondere ad alcune domande fondamentali: cos’è più importante per noi svizzeri? La ricchezza o la morale? E chi guida davvero questo paese? Vale ancora il primato della politica o piuttosto sono gli uomini d’affari a decidere tutto?”.

Com’è possibile che i rappresentanti del popolo eletti democraticamente abbiano raggiunto meno di un gruppo di uomini d’affari? Probabilmente la Svizzera è diventa un po’ “Maga”: ha assimilato lo spirito populista e sprezzante della politica tipico di Trump e dei suoi seguaci, ha preferito affidarsi ai suoi oligarchi, spazzando via le gerarchie tradizionali e i vecchi equilibri di potere, continua il quotidiano. La presidente Keller-Sutter, fino a poche settimane fa la donna più potente del paese, è stata ridotta al ruolo di comparsa. Per trattare con Trump gli imprenditori hanno avuto accesso a informazioni riservate del governo che non sono note alla maggior parte dei parlamentari.

Mattea Meyer, copresidente del Partito socialista svizzero, ha dichiarato che “ancora oggi il parlamento non sa cosa hanno promesso gli imprenditori a Trump in nome della Svizzera, né cosa vogliono chiedere ai politici”. Per tutta risposta Urs Wietlisbach, un socio d’affari di Alfred “Fredy” Gantner, ha sottolineato che “la Svizzera presto sarà grata a Gantner”. Ora, comunque, la politica ha la possibilità di rifarsi, visto che l’accordo dev’essere ratificato dal parlamento e che sul tema sarà possibile indire un referendum. La riuscita dell’intesa, conclude la Neue Zürcher Zeitung, potrebbe essere tutt’altro che scontata, anche perché Trump è a dir poco impopolare tra gli svizzeri.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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