Tra poco più di un mese, l’8 e il 9 giugno, in Italia si vota per cinque referendum. Quattro sono su questioni di disciplina del lavoro: licenziamenti, durata dei contratti e sicurezza sul lavoro. Il quinto è sui tempi per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.
Quest’ultimo referendum propone di dimezzare da dieci a cinque gli anni di residenza legale in Italia necessari per chiedere la cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, viene trasmessa ai figli e alle figlie se minorenni.
Non sarebbe una novità: la legge era così fino al 1992 (e dal 1865!), quando il governo Andreotti decise di modificarla in senso restrittivo per i cittadini non europei. Ridurre gli anni di residenza ininterrotta non renderebbe automatico il processo per ottenere la cittadinanza.
Resterebbero invariati gli altri requisiti, tra cui la conoscenza della lingua italiana, il possesso di “adeguate fonti di sussistenza”, l’essere incensurati, il rispetto degli obblighi fiscali e l’assenza di “cause ostative” collegate alla “sicurezza della repubblica”.
Questa modifica, se approvata, sarebbe una conquista importante per due milioni e mezzo di persone di origine straniera che nascono, crescono, abitano, studiano e lavorano in Italia. E vorrebbe dire avvicinare l’Italia alla maggioranza dei paesi europei.
Ma si tratta di un referendum abrogativo, quindi serve il quorum del 50 per cento e raggiungerlo non è affatto scontato (a proposito: c’è tempo solo fino al 4 maggio per chiedere di votare da fuori sede).
Però è un’occasione irripetibile per capire se il paese reale, quello che aveva stupito tutti votando per il divorzio nel 1974 e per l’aborto nel 1981, riuscirà a stupirci di nuovo.
Dimostrandosi ancora una volta più avanti di una classe politica che in questi anni non è riuscita ad approvare una seppur minima legge in grado di garantire diritti e tutele a tanti ragazzi e ragazze nati in Italia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 3. Compra questo numero | Abbonati