Nel maggio di dieci anni fa il Partito conservatore guidato da David Cameron ottenne la maggioranza assoluta alle elezioni politiche britanniche. Poche settimane dopo il primo ministro promise di organizzare un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. L’Irlanda si trovò così ad affrontare una realtà fino ad allora ignorata: il nazionalismo inglese, una potenziale minaccia per il futuro dell’isola.

Dieci anni dopo noi irlandesi ci chiediamo se quella sia ancora una forza con cui dover fare i conti. La risposta a questo interrogativo avrà ripercussioni enormi. Se il Regno Unito non si dividerà, il popolo irlandese potrà decidere del proprio futuro con i suoi tempi. Se invece lo farà, ogni decisione sul ruolo dell’Irlanda del Nord al suo interno sarà presa in un clima di tensione e confusione.

La Brexit ha dimostrato che l’arcipelago britannico è vittima da tempo di una profonda crisi culturale e politica, che riguarda la questione irrisolta dell’identità inglese

Quando Cameron decise di indire il referendum sulla Brexit, era sicuro che avrebbe vinto l’europeismo, l’opzione che lui stesso sosteneva. Ma la sua fiducia si basava su una colpevole ignoranza. Come gran parte della classe dirigente britannica, infatti, Cameron non prendeva sul serio il nazionalismo inglese. Era convinto che il nazionalismo fosse una malattia scozzese e irlandese (e in minima parte gallese). Gli inglesi erano troppo posati per cedere alle sue lusinghe.

Come oggi sappiamo bene, Cameron si sbagliava. Il nazionalismo inglese, che per decenni si era nascosto dietro i miti della britishness (britannicità) e dell’impero, era – ed è ancora – un concetto ambiguo e sfaccettato: una realtà mai scomparsa, ma tornata allo scoperto con la Brexit. Definirlo era difficile, ma abbiamo sempre saputo cosa non era: europeo.

La Brexit è stata la soluzione sbagliata al problema dell’identità inglese. Il divorzio da Bruxelles non ha aiutato la gente comune a “riprendere il controllo della propria vita”. Ha fatto solo evaporare il 4 per cento del pil britannico. Oggi le famiglie britanniche a basso reddito sono più povere di quelle francesi del 27 per cento e di quelle irlandesi del 60 per cento.

In questa situazione, sarebbe logico pensare che i risultati della Brexit abbiano fatto perdere ai britannici il loro appetito per il nazionalismo. Ma la logica c’entra poco con le politiche identitarie. Certo, i ripensamenti ci sono stati. Stando a un sondaggio condotto a gennaio “meno della metà delle persone che nel 2016 hanno votato per la Brexit oggi può indicare una conseguenza positiva dell’uscita dall’Unione europea”. Allo stesso tempo, però, al momento la figura politica più in vista del Regno Unito è Nigel Farage, il vero responsabile della Brexit.

Per capire questo paradosso può essere utile analizzare l’ultima edizione dello studio Future of England di Ailsa Henderson e Richard Wyn Jones. I due ricercatori hanno scoperto che gli elettori che si considerano inglesi prima che britannici sono arrabbiati e spaventati. Hanno un rapporto ambivalente con Bruxelles e una netta ostilità verso l’influenza politica sull’Inghilterra delle altre nazioni costitutive del Regno Unito e sul costo che queste rappresentano per Londra.

In un primo momento la Brexit ha fatto da valvola di sfogo per questi rancori, ma dopo il 2022 la pressione ha ricominciato a crescere. Oggi quattro abitanti dell’Inghilterra su dieci si definiscono inglesi prima che britannici. Queste persone sono più portate a sostenere il partito di Farage, Reform Uk, o i conservatori. È una tribù profondamente infelice. Perché “è consapevole di quello che percepisce come un drammatico contrasto tra le glorie del passato e le difficoltà del presente”, in un paese dove “gli inglesi si sentono assediati, un’Inghilterra arrabbiata con tutto e tutti”, scrivono Hay e Wyn Jones. Una delle verità emerse dal fallimento della Brexit è che ai nazionalisti inglesi non interessano le ricadute dei recenti cambiamenti sulle sorti del Regno Unito. E pazienza se a causa dell’uscita dall’Europa la Scozia e l’Irlanda del Nord diranno addio a Londra.

In tutto questo, per gli unionisti nordirlandesi c’è un segnale particolarmente preoccupante: il 38 per cento degli inglesi ritiene che “il livello di spesa pubblica in Irlanda del Nord dovrebbe essere equiparato a quello del resto del Regno Unito”. Se una misura simile fosse attuata, avrebbe effetti disastrosi. La spesa pubblica di Belfast è infatti più alta del 19 per cento rispetto alla media britannica.

La Brexit ha dimostrato che l’arcipelago britannico è vittima da tempo di una profonda e contraddittoria crisi culturale e politica, che riguarda il tema irrisolto dell’identità inglese in un mondo postimperiale. Questa crisi è esplosa nel 2016 e non si può escludere che torni a manifestarsi. Il duraturo successo di un avventuriero come Farage è il segnale del fermento che si agita sotto la superficie della politica inglese. Noi irlandesi faremmo bene a restare vigili. ◆ as

Questo articolo è uscito sull’Irish Times.

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati