Una volta noi narratori ci acquattavamo da qualche parte fingendo che la storia si raccontasse da sola, anche se, di fatto, nutrivamo con la nostra esperienza più intima le vicende che formalmente erano d’altri: minatori, proprietari terrieri, naufraghi, signore dedite all’adulterio, marziani, investigatori, eccetera. Ma il nostro io intanto fremeva e a volte irrompeva sconclusionatamente nel bel mezzo della narrazione in terza persona (si pensi a Federigo Tozzi che in Con gli occhi chiusi butta lì all’improvviso: “Vorrei parlare di questi indefinibili turbamenti del marzo”). Più spesso, la prima persona singolare si sfogava in pagine sparse, che poi diventavano il deposito a cui si attingeva per quella che era considerata l’opera vera e propria, limatissima, depurata dalle scorie della quotidianità e artificialmente imbottita delle grandi ragioni che la giustificavano. Questo salto dal testo minore, sporco di vita, a quello maggiore, lindo stilisticamente, ha perso piano piano energia. Lettere, diari, opera si sono fusi e confusi mettendo realisticamente al centro di ogni narrazione l’io dell’autore, una prima persona che racconta i fatti suoi, caso mai ritoccandosi un pochino con piccole invenzioni. Resta tuttavia lo spettro della giustificazione e va crescendo la ricerca di un oggetto narrativamente rilevante a cui afferrarsi con la propria sofferta irrilevanza.

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Questo articolo è uscito sul numero 1424 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati