Nell’ultima battuta di un’intervista di Wieland Freund a Jonathan Franzen (Einaudi 2020), lo scrittore, dopo aver detto la sua su cambiamento climatico e su lotte ambientaliste, prevede un imminente aumento della popolarità della letteratura, visto che essa è maestra nell’indagare i problemi insoluti alla base della condizione umana. Previsione, nel cupo quadro odierno, sicuramente di molto conforto. Ma – il dubbio fa sempre bene – non è che ci affidiamo troppo all’idea diffusa che “i libri possano giovare alla specie umana”? Quanto dura l’effetto di versi e prose nella nostra testa? Chiediamo lumi a Giacomo Leopardi, che per bocca di Eleandro, personaggio di una delle sue Operette morali , risponde così: un libro foss’anche “poetico”, cioè “destinato a muovere l’immaginazione” e a lasciare nell’animo un sentimento nobile, agisce, nelle circostanze migliori, per mezzora o al massimo un’ora; subito dopo il lettore torna quasi senza accorgersene alle sue normali malefatte come tradire l’amico o altre porcherie. E la colpa non è della scarsa qualità dei testi: succede anche con “le più belle, più calde, più nobili poesie del mondo”. La letteratura, insomma, dà risultati duraturi più quando nutre l’intelligenza degli automi – è ancora Leopardi a suggerircelo in Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi – che quando siamo noi umani a cibarcene.

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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati