Quello che sta succedendo in Bielorussia era stato previsto a grandi linee già da mesi. Prima delle elezioni il presidente Aleksandr Lukašenko avrebbe eliminato qualsiasi sfidante serio, lasciando che a partecipare fossero solo candidati che poteva battere senza problemi; il voto sarebbe stato manipolato; la proclamazione della vittoria di Lukašenko avrebbe scatenato proteste; il governo le avrebbe represse con la forza, per poi difendersi dalle critiche parlando di interferenze di soggetti esterni negli affari della Bielorussia. In questo modo il presidente avrebbe conservato il potere. In altre parole, una ripetizione di quello che era successo dopo le presidenziali del 2010.

Eppure, contro ogni previsione, diversi elementi hanno alterato questo scenario. Il primo è stata la cosiddetta vicenda Wag­ner, una bizzarra operazione in cui, undici giorni prima del voto, il Kgb bielorusso ha arrestato 33 presunti mercenari russi della compagnia militare privata Wagner accusandoli di essere arrivati a Minsk per seminare il caos in occasione delle presidenziali. La vicenda ha permesso a Lukašenko di inasprire la sua retorica antirussa. Il Cremlino, irritato, ha ritenuto che si trattasse di una manovra del presidente bielorusso per ottenere l’appoggio degli occidentali alla sua rielezione attraverso una campagna antirussa e basata sulla difesa della sovranità nazionale. A quel punto Mosca ha perso la scarsa fiducia residua nei confronti di Lukašenko.

Il secondo elemento imprevisto è stata la determinazione dei manifestanti, che a Minsk e in tutta la Bielorussia hanno continuato a protestare per giorni nonostante la repressione della polizia, spesso estremamente violenta. La brutalità, che secondo Lukašenko avrebbe dovuto sedare le proteste come in passato, ha invece rafforzato l’indignazione e la rabbia. Questo sviluppo ha determinato il terzo risultato inatteso: le proteste, di solito guidate dai giovani europeisti delle città, si sono allargate fino a coinvolgere i più anziani e perfino molti di quelli che avevano votato per Lukašenko.

Settimane o mesi

La situazione cambia rapidamente e ci saranno altre sorprese, ma è comunque possibile trarre alcune conclusioni. La prima è che il regime di Lukašenko ha evidentemente perso il sostegno del paese. All’atto pratico il presidente potrebbe riuscire a conservare il potere perché la classe dirigente, composta da burocrati selezionati personalmente da lui con una rotazione continua, sembra ancora solida e coesa. Inoltre la lealtà della polizia e dei servizi di sicurezza è stata confermata dal coinvolgimento personale dei vertici delle forze dell’ordine nella repressione delle proteste. In altre parole, in Bielorussia non ci sarà una rivoluzione colorata.

Tuttavia Lukašenko, che avrebbe addirittura potuto vincere al primo turno se avesse permesso uno svolgimento regolare del voto, non ha più l’appoggio della popolazione. Anche se lo spoglio ufficiale ha assegnato al presidente l’80 per cento dei consensi, i cittadini comuni non hanno opposto alcuna resistenza alle manifestazioni. Questo significa che la volontà dei bielorussi non si è espressa alle urne, ma nei giorni successivi.

Lukašenko, l’autocrate che sembra aver costruito da solo lo stato bielorusso, sarebbe potuto passare alla storia come il padre della Bielorussia moderna se solo avesse scelto (anche all’inizio di quest’anno) di dimettersi e pilotare la propria successione. Ora, invece, sembra condannato a un’uscita di scena disonorevole. Potrebbero volerci settimane o mesi, ma la sua fine è scritta. La sua legittimità politica è azzerata. Questo è il risultato più importante degli ultimi eventi, ed è un risultato che porta altri attori sulla scena accanto al popolo bielorusso. In questo modo comincia un nuovo atto del dramma.

La soluzione più logica

La posizione strategica della Bielorussia, che si trova sull’asse che separa l’Unione europea dalla Russia, rende molto rilevante, per Mosca come per l’occidente, la successione dell’uomo che ha governato il paese con il pugno di ferro per 26 anni. Il Cremlino non è incatenato a Lukašen­ko, e tutto lascia pensare che non intenda sopportarlo ancora. Ma allo stesso tempo Mosca non può permettere alla Bielorussia di seguire la strada dell’Ucraina e diventare un altro baluardo antirusso deciso a entrare nella Nato. D’altra parte non può nemmeno accettare che la ribellione si concluda con un bagno di sangue. Cosa può fare dunque la Russia? Le opzioni, sostanzialmente, sono quattro. La prima è un intervento militare. Questa soluzione va evitata a tutti costi, perché avrebbe conseguenze disastrose. La seconda opzione è non fare nulla e lasciare che Lukašenko cada, nella speranza che il successore tenga conto degli stretti legami – anche economici – tra Russia e Bielorussia. Ma è un’ipotesi troppo rischiosa. Una rivolta potrebbe trasformarsi in una strage e dunque costringere Mosca a tornare alla prima opzione, quella dell’intervento militare.

La terza opzione è approfittare del pessimo rapporto tra Lukašenko e l’occidente per proteggere e sostenere il presidente bielorusso. Una soluzione controproducente, perché renderebbe Mosca complice di un regime ormai in crisi e alimenterebbe l’odio dei bielorussi nei confronti della Russia.

La quarta opzione è cercare di gestire il cambio di regime a Minsk. Servirebbe a facilitare la transizione politica bielorussa, convincendo Lukašenko che, considerate le circostanze, l’esilio è il male minore. In questo caso bisognerebbe coinvolgere diverse figure pubbliche della società bielorussa per creare una struttura di governo provvisoria in grado di organizzare le prossime elezioni. Inoltre sarebbe necessario consultare i bielorussi a proposito delle relazioni bilaterali, inclusa la natura dell’unione Russia-Bielorussia e i suoi diversi elementi, tra cui i futuri rapporti economici e di sicurezza tra i due paesi. Il confronto dovrebbe essere schietto, per riaffermare – o modificare – gli impegni reciproci.

Per la Russia l’idea di gestire la crisi bielorussa in modo da mantenere un buon rapporto di vicinato e un’alleanza affidabile può sembrare poco ambiziosa, soprattutto se paragonata al progetto di fusione tra i due paesi. Ma abbandonare le illusioni, salvare vite umane e risparmiare risorse è sicuramente meglio che permettere a un parente stretto di diventare un nemico giurato. Quello che è successo in Ucraina non deve assolutamente ripetersi. ◆as

Dmitrij Trenin _ è il direttore del centro studi russo Carnegie Moscow Center. _

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Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati