Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser si sarebbe sicuramente lasciato andare a un sorriso beffardo. Sessantacinque anni dopo la sua decisione di nazionalizzare il canale di Suez, che nel 1956 provocò l’aggressione militare di Regno Unito, Francia e Israele, quella linea di comunicazione continua ad avere un’importanza enorme sul commercio mondiale. Il 23 marzo una sola nave – per quanto gigantesca, con una lunghezza vicina all’altezza dell’Empire state building e un peso di 220 tonnellate – si è arenata bloccando l’ingresso meridionale del canale e ha innescato una reazione a catena globale. I prezzi del greggio sono schizzati alle stelle, le petroliere e le navi portacontainer si sono fermate, i fornitori di un’infinità di prodotti – dall’olio ai televisori – hanno cominciato a valutare l’idea di circumnavigare l’Africa facendo passare le loro navi dal capo di Buona Speranza: questo significava ritardare di una settimana le consegne e provocare un forte aumento dei costi.

Un secolo e mezzo dopo il completamento del canale, nel 1869, più del 10 per cento del commercio marittimo globale (e una percentuale simile del petrolio mondiale) passa per i 193 chilometri del canale che collega l’Asia all’Europa. L’incidente della Ever Given, che secondo il Lloyd’s List (un quotidiano internazionale specializzato in navigazione e logistica) ha interrotto il trasporto di beni per 9,6 miliardi di dollari al giorno, ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla fragilità della catena di rifornimento, già messa in difficoltà dalla pandemia e da un’epoca in cui è in discussione la concezione stessa del commercio mondiale.

Le difficoltà create dal covid-19, con le carenze iniziali di dispositivi di protezione individuale e ora con la corsa ad accaparrarsi le dosi di vaccini, hanno evidenziato una serie di problemi legati al sistema del commercio. Queste difficoltà potrebbero spingere i governi e le aziende a ripensare il modello just in time (“appena in tempo”, cioè a ridosso della vendita), che ha privilegiato l’efficienza a scapito della solidità.

“La catena di distribuzione è lunga chilometri, ma profonda pochi centimetri”, osserva Ted Marley, della società di consulenza PolarixPartner. Considerando i timori iniziali sul fatto che la pandemia potesse provocare forti carenze di prodotti, si può dire che il sistema abbia retto abbastanza bene. “Se osserviamo in modo obiettivo ciò che sta succedendo, notiamo che la catena di distribuzione si è dimostrata piuttosto resistente”, sottolinea Ngozi Okonjo-Iweala, direttrice generale dell’Organizzazione mondiale del commercio. Secondo Adam Tooze, professore di storia all’università Columbia, negli Stati Uniti, questa resistenza è garantita da un esercito di 1,6 milioni di marinai “costretti a restare in mare per mesi”.

Un altro fattore positivo sono stati i sistemi di consegna perfezionati da Amazon e Alibaba e da una complessa rete di aziende specializzate nel trasporto e nella logistica. Durante la pandemia i consumatori dei paesi ricchi hanno trovato supermercati riforniti, pompe di benzina aperte e consegne online puntuali. Ma le difficoltà sono emerse altrove. Il blocco del canale di Suez è solo l’ultimo di una serie di eventi che hanno messo a rischio il funzionamento del commercio globale. Appena cinque giorni prima che la Ever Given si arenasse, un incendio nella fabbrica di processori della Renesas Electronics, in Giappone, ha minacciato di gettare nel caos l’industria dei semiconduttori, già alle prese con una serie di carenze nella produzione. La chiusura dell’impianto giapponese, che secondo le previsioni dovrebbe durare almeno un mese, è arrivata dopo che due aziende concorrenti, l’olandese Nxp e la tedesca Infineon, erano state costrette a fermare per un mese le attività nei loro stabilimenti in Texas, negli Stati Uniti, in seguito a una serie di devastanti interruzioni di corrente causate da una tempesta artica. Gli impianti sono stati riaperti solo di recente. La stessa ondata di gelo ha fermato anche quattro quinti della produzione petrolchimica dello stato, colpendo la distribuzione di polietilene, polipropilene e polivinilcloruro (tre dei polimeri più usati) e di conseguenza la produzione di airbag e altri componenti per l’industria automobilistica.

“Sfortunatamente l’incendio è arrivato in un momento in cui nel nostro settore non ci sono riserve”, spiega Hidetoshi Shibata, amministratore delegato della Renesas. Ai giapponesi l’incidente ha fatto ricordare il terremoto e lo tsunami del 2011. All’epoca l’interruzione dell’attività dell’impianto, fino ad allora sconosciuto, paralizzò le fabbriche di automobili a migliaia di chilometri di distanza, fino negli Stati Uniti. E anche questa volta Shibata ipotizza “conseguenze enormi” sulle catene di distribuzione dei processori.

La pandemia aveva già rivelato le vulnerabilità di queste catene. I prezzi per il trasporto navale dei container sono più che triplicati, perché la aziende che controllano le rotte hanno ridotto l’attività prevedendo un calo della domanda. Oggi spedire un container di 12 metri dall’Asia alla costa occidentale degli Stati Uniti costa circa quattromila dollari, contro i 1.500 dell’inizio del 2020. “La nostra catena di distribuzione è basata su scenari prevedibili”, spiega Ashwani Gupta, direttore operativo della Nissan. “Non avevamo ipotizzato uno scenario estremo come quello del covid-19, con la crisi e le difficoltà senza precedenti che sta creando”.

Canale di Suez, Egitto, 25 marzo 2021 (Suez Canal Authority/dpa/Ansa/Lapresse)

A tutto questo si aggiungono le pressioni politiche, che già stanno ostacolando la globalizzazione e le lunghe e tortuose catene di distribuzione che la sorreggono. Per Ngaire Woods, professore di economia globale all’università di Oxford, nel Regno Unito, “le catene di distribuzione globali stanno subendo tre pressioni diverse che meritano una riflessione”. La prima è il tentativo di riportare in patria i posti di lavoro, di cui è stato paladino l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. La seconda, evidenziata dal covid-19, nasce dalla dipendenza dall’estero per le forniture di equipaggiamenti medici e più in generale per prodotti di base e tecnologie militari e civili fondamentali. “Questo fenomeno riguarda l’autonomia di uno stato. Ogni paese deve assicurarsi di poter produrre il cibo di cui ha bisogno, i dispositivi di protezione individuale, i vaccini. È un tema che riguarda la sicurezza, non è solo una posizione nazionalista”, spiega Woods. La terza pressione nasce dalla pretesa, espressa dagli investitori istituzionali e dai consumatori, che le aziende gestiscano meglio le loro catene di distribuzione e sostengano i costi legati alle emissioni di anidride carbonica e al rispetto dei diritti dei lavoratori nelle aziende fornitrici.

Globalizzazione lenta

Tuttavia, nonostante tutte queste pressioni, la morte del mercato globale (e della globalizzazione) è stata ripetutamente esagerata. “Alcuni sostengono che stiamo passando alla globalizzazione lenta”, dice Okonjo-Iweala. “Ma non ne sono convinta. Penso che stiamo attraversando un periodo di riorganizzazione della globalizzazione”. Negli anni novanta e all’inizio degli anni duemila il commercio globale crebbe a ritmi elevati perché grandi economie come Cina, India e l’Europa orientale venivano integrate nell’economia globale. Ora queste forze sono state più o meno assorbite ed è naturale che la marcia rallenti. “Questo però non significa che abbiamo raggiunto l’apice”, spiega Okonjo-Iweala. “Esistono regioni ancora non integrate. L’Africa rappresenta solo il 2-3 per cento del commercio mondiale. Quindi c’è molto spazio per l’integrazione nel sistema dei paesi africani o di altre economie povere”.

Parag Khanna, della società di consulenza FutureMap, non pensa che le catene di distribuzione siano state deboli, tutt’altro: hanno mostrato di saper rispondere alle perturbazioni temporanee e ai cambiamenti strutturali. Khanna fa l’esempio dell’industria dell’energia. Quando nel 1990 Saddam Hussein invase il Kuwait, i prezzi del petrolio raddoppiarono nel giro di due mesi. Oggi non succederebbe perché, secondo Khanna, “la distribuzione si è allargata ed è globale. Oggi coinvolge mercati e raffinerie diversi collegati tra di loro. Per non parlare della flessibilità con cui gli impianti gestiscono i differenti tipi di petrolio”. Internet potrebbe essere l’esempio definitivo di quella che Khanna chiama “un espediente”, visto che ha permesso incontri che in passato si sarebbero potuti svolgere solo chiedendo alle persone di viaggiare.

Quando scoppia una crisi, le aziende fanno di tutto per salvare la produzione. Dopo un incendio nel 2018 in un impianto del Michigan, negli Stati Uniti, che produceva componenti per il furgone Ford F-150, la casa automobilistica inviò una squadra per estrarre dalle macerie carbonizzate della fabbrica 19 macchinari. Questi strumenti, tra cui uno che pesava 44 tonnellate, furono trasportati nel vicino Ohio e poi caricati a bordo di un aereo russo Antonov e inviati nel Regno Unito, dove la produzione riprese. L’intera operazione fu completata in trenta ore.

Ultime notizie

◆ Il 29 marzo 2021 è stata disincagliata la Ever Given, la nave portacontainer che si era arenata il 23 marzo – probabilmente in seguito al forte vento e a una tempesta di sabbia – bloccando il canale di Suez. Le autorità hanno aperto un’inchiesta per capire le cause dell’incidente. L’imbarcazione, che è lunga 400 metri e pesa 200mila tonnellate, trasportava 18.300 container. Ora è stata ancorata in un bacino artificiale in modo da facilitare la riapertura della via che collega il mar Mediterraneo al mar Rosso e che, in condizioni normali, può far passare fino a 106 navi al giorno. Più di 360 imbarcazioni sono bloccate in attesa di proseguire nel viaggio. Molti armatori, tuttavia, hanno deciso di circumnavigare l’Africa, passando dal capo di Buona speranza: questo vuol dire che un viaggio da Rotterdam, nei Paesi Bassi, a Kaohsiung, a Taiwan, si allunga da 18.500 a 25mila chilometri, per una durata che passa in media da 25 a 34 giorni. Inaugurato nel 1869, il canale di Suez è stato ampliato l’ultima volta nel 2015: grazie a un investimento di 8,6 miliardi di dollari è stato costruito un canale parallelo che permette il passaggio delle navi nelle due direzioni di marcia per un tratto di 40 chilometri. Questo ha permesso di far crescere il numero di navi in transito e quindi anche le entrate dell’Egitto, che ogni anno incassa somme pari al 2 per cento del suo pil. The Wall Street Journal, Bbc


Quando le cose non funzionano

Per i consumatori è difficile capire la complessità delle reti che portano i prodotti nei loro negozi o nelle loro case. “Non sono sicuro che agli utenti interessino i dettagli, tranne quando le cose non funzionano”, sottolinea John Butler, presidente del World shipping council, l’organizzazione che rappresenta le principali compagnie di spedizioni marittime.

Alla luce di queste complessità, Khanna ritiene che le pressioni politiche per riportare la produzione all’interno dei confini nazionali siano ingenue: “Anche la catena di distribuzione si basa a sua volta su una catena di distribuzione”. Una dose del vaccino Pfizer-Biontech, per esempio, ha bisogno di 280 componenti prodotti in diversi paesi, come ha rivelato la stessa casa farmaceutica. L’idea di passare dalle consegne just in time a quelle just in case (solo in caso di necessità) fino a quelle just at home (solo nel proprio paese) è molto più complessa di quanto sembri, spiega Okonjo-Iweala. Eppure secondo Marc Levinson, storico e autore del libro The box (sulla rivoluzione nelle spedizioni provocata dai container), potrebbero essere necessarie alcune modifiche. “A proposito dell’affidabilità della catena di distribuzione, evidenzierei la necessità di saper reagire prontamente agli eventi traumatici”, spiega. “È un po’ come comprare una polizza assicurativa”.

Questi temi sono molto lontani dai pensieri delle squadre olandesi e giapponesi che hanno lavorato per sbloccare la Ever Given e liberare una delle principali arterie commerciali del pianeta. Il capitano Karan Vir Bhatia, che attualmente si trova in Egitto in attesa dei risultati di un tampone prima di tornare a casa in India, conosce meglio di chiunque altro la difficoltà di manovrare le mastodontiche imbarcazioni che oggi solcano i mari. L’anno scorso la sua nave si era incagliata nel canale di Panama, un altro snodo cruciale. Anche se quella vicenda non aveva causato un incidente internazionale, Bhatia era stato costretto a restare sveglio per 36 ore di fila. “È un lavoro molto stressante, sia per il capitano sia per l’equipaggio. Non stai manovrando una macchina, ma un’isola galleggiante lunga 230 metri”.

A causa delle restrizioni dovute al covid-19, Bhatia è bloccato a bordo della sua nave da dieci mesi. Dei 400mila marinai rimasti in mare dopo la scadenza del loro contratto la scorsa estate, 200mila sono ancora bloccati sulle navi. “Sulla terraferma non capiscono niente di questo settore”, sottolinea Bhatia. Si riferisce ai consumatori che non sanno nulla delle rotte commerciali seguite dai loro prodotti preferiti. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati